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L'associazione zen bodai dojo è membro dell' UBI, Unione Buddhista Italiana

 
Che cos’è un kusen?

Ku significa bocca, sen, insegnamento. Il kusen è l’insegnamento orale dato dal maestro o dal monaco anziano durante la meditazione.
Kusen
 
11/13 maggio 2001
Sesshin di Ghigo di Prali
diretta dal Maestro Roland Yuno Rech



Venerdì 11 maggio 2001, kusen delle 7:00

Come in kin hin all'inizio di zazen concentratevi completamente sulla postura. Non lasciatevi trascinare dai vostri pensieri. Concentratevi sui punti essenziali: il bacino inclinato in avanti, come se volessimo che l'ano non toccasse lo zafu, le ginocchia ancorate al suolo, il ventre rilassato per permettere al peso del corpo di premere sullo zafu. Al tempo stesso estendete la colonna vertebrale e la nuca a partire dalla vita, come se voleste allungarvi di qualche centimetro.

Tutte le conflittualità dello spirito provocano tensioni nei muscoli. In zazen possiamo allentare queste tensioni sciogliendo i muscoli della schiena o della nuca. E' un po' come passare il ferro sopra un tessuto di chiffon. Il nostro corpo è esteso tra il cielo e la terra e ritrova la sua autentica funzione di connessione tra cielo e terra, tra sé e tutto l'universo. A questo punto il nostro piccolo ego può tornare al suo giusto posto e non dirigerci più, poiché lo spirito concentrato sulla postura non crea più separazione tra il cielo e la terra, tra sé e gli altri, tra sé e la pratica. Il sé è completamente assorbito in zazen e zazen ci collega a tutto l'universo. La vera dimensione della nostra esistenza è completamente al di là di noi stessi. Possiamo così armonizzarci con la nostra autentica natura e lasciarci andare completamente, senza fare tanti sforzi per mantenere le nostre illusioni. Possiamo lasciarci guidare da zazen. Lo sguardo è posato davanti a sé verso il suolo e non fissa un punto speciale. In questo modo diventa vasto. Quando non guardiamo nulla di speciale possiamo osservare tutto lo spazio che ci circonda. Allo stesso modo anche lo spirito diventa vasto, come un grande specchio che riflette tutto ugualmente, le nostre illusioni, i nostri pensieri limitati, gli attaccamenti, le emozioni, i desideri.

Lo specchio di zazen riflette anche la vacuità, riflette la nostra autentica natura di Buddha. Riflette i lati più oscuri come quelli più luminosi, senza creare opposizioni tra i due. Possiamo porre lo spirito vasto di zazen nelle nostre mani, concentrandoci sulla loro postura: la mano sinistra nella mano destra, i pollici orizzontali, il taglio delle mani in contatto col basso ventre. In zazen le mani non realizzano nulla, non afferrano nulla, restano del tutto aperte, come lo spirito di zazen, ma al tempo stesso i pollici sono in contatto. Dal momento che non è possibile concentrarci su tutti i punti della postura nello stesso memento, possiamo concentrarci sul contatto dei pollici, un contatto dolce, delicato, vegliando affinché non si formino né montagne né valli. Attraverso questa concentrazione il corpo e lo spirito possono ritornare veramente in unità.

Inspiriamo ed espiriamo profondamente senza forzare la respirazione. E' importante trovare la giusta respirazione cercando di andare sino al fondo di ogni espirazione. Se troviamo un blocco non cerchiamo di forzarlo, ma al contrario cerchiamo di rilassarci, allentiamo le tensioni. La stessa cosa avviene col nostro spirito, cercando di non attaccarci ai nostri pensieri. Se l'espirazione diventa corta, è il segnale di una tensione. Se ci concentriamo sulla respirazione, le nostre tensioni si allentano. Nel corso della sesshin tornate spesso sulla respirazione, non solo in zazen, ma in tutti i momenti della vita quotidiana. Cercate di conservare anche nella vita quotidiana la stessa concentrazione che esiste nel dojo.

Venerdì 11 maggio 2001, kusen delle 11:00

Durante zazen siamo seduti di fronte al muro con lo sguardo posato al suolo davanti alle nostre ginocchia e non perseguiamo alcun oggetto. Essere di fronte al muro significa volgere il proprio sguardo verso l'interno, smettere di rincorrere tutti i fenomeni. Concentrarsi sulla verticalità della postura significa non seguire le nostre inclinazioni, le nostre tendenze, senza piegarci in avanti come se volessimo afferrare qualcosa o all'indietro in un atteggiamento estatico. Concentrarsi sulla verticalità della postura significa essere al di là di questi atteggiamenti che ci condizionano nella vita quotidiana, significa anche smettere di agitarsi in molteplici direzioni, per volgere il nostro sguardo verso l'interno e illuminare la nostra autentica natura, o piuttosto essere illuminati da essa, lasciando cadere quanto la oscura, il altre parole i nostri attaccamenti, legati all'idea che ci facciamo di noi, scambiandoci per quello che non siamo, ossia per qualcuno che esisterebbe per se stesso, in se stesso. Esistiamo solo in relazione con gli altri, non esiste me senza te, né ego senza gli altri. Praticare zazen significa realizzare ciò intimamente, vedere che non possiamo possedere per noi stessi, poiché l'essenza della nostra esistenza è illimitata e si realizza in relazione. Se sentiamo tutto ciò intimamente possiamo abbandonare la volontà di affermare noi stessi, che ci rende come statue. Il nostro spirito può ammorbidirsi, diventare più fluido, meno coagulato, risvegliandosi alla dimensione della sua autentica natura, in unità con il cielo e la terra, con tutti gli esseri, specialmente gli esseri sensibili, con i quali condividiamo il destino di trasmigrare nei sei mondi, quello animale, quello infernale, fino al mondo paradisiaco, passando per il mondo umano ordinario e quello degli spiriti guerrieri. Possiamo fare l'esperienza diretta di questi mondi volgendo il nostro sguardo verso l'interno, vedendo come le nostre emozioni, i nostri pensieri costruiscono il nostro mondo, che dipende del tutto dal nostro stato di coscienza. Quando siamo in collera tutto il mondo sembra un incendio, un fuoco. Quando siamo depressi ci sembra di essere all'inferno. Quando avvertiamo la gioia ci sembra di essere in paradiso. Per la maggior parte del tempo siamo preoccupati per la nostra vita quotidiana, le relazioni sociali, la famiglia, il lavoro. Zazen ci permette di riconoscere rapidamente, con un solo colpo d'occhio, in quale mondo siamo. Questo ci consente di non ristagnare in un unico stato particolare.

Tornando alla concentrazione sul corpo, sulla respirazione, non ci identifichiamo con alcunché. La trasmigrazione non riguarda solo il nostro spirito in zazen o nelle peripezie della vita quotidiana. Concerne l'esistenza di tutti gli esseri, nel mondo intero, in tutte le epoche. Approfondendo la nostra pratica possiamo sentirci sempre più vicini e solidali con gli altri, più sensibili alle loro difficoltà. In questo modo appare l'autentico spirito di compassione. La comparsa dello spirito di compassione è il segno che la nostra saggezza si approfondisce, che la nostra comprensione non è solo intellettuale, superficiale e che comprendiamo la vita, attraverso tutto il nostro essere in relazione con gli altri, perché non siamo separati dagli altri. Appare così la motivazione del bodhisattva. Il primo dei quattro voti che cantiamo ogni mattina e ogni sera dopo zazen: "Per quanto numerosi siano gli esseri sensibili, faccio il voto di salvarli tutti". Cosa significa? Questo sarà il tema dei kusen di questa sesshin che si concluderà con l'ordinazione di bodhisattva e monaci. Anche se durante zazen siamo senza oggetto, senza scopo e desideri, a partire da zazen i voti del bodhisattva appaiono, e con essi il grande desiderio di contribuire a salvare tutti gli esseri, inclusi noi stessi.

Questo desiderio è del tutto generoso, è il riflesso della nostra natura autentica, ed è completamente mushotoku, al di là di ogni ricerca di profitto personale. Pazientate ancora cinque minuti, se avete male alle gambe questa è l'occasione di concentrarvi sull'espirazione, constatate come questa concentrazione riduce il dolore. Aiuta ad attraversarlo.

Venerdì 11 maggio 2001, kusen delle 16:30

Il responsabile del kyosaku deve svegliare le persone che dormono, anche se queste persone non lo chiedono. Camminate in kin hin sui due lati del dojo. Bisogna sentire quando le persone hanno bisogno di ricevere il kyosaku.

Per quanto numerosi siano gli esseri sensibili (shujo muhen: shujo sono gli esseri sensibili, tutti gli esseri viventi che trasmigrano nei sei piani di esistenza, dall'inferno fino al cielo passando per gli stati di gaki, di animali, di esseri umani, di asura, cioè di esseri aggressivi, combattenti, e di deva, le deità, e non include le piante, l'erba, tutti gli esseri sensibili), faccio il voto di salvarli tutti. Seigando è il grande voto di compassione del bodhisattva. Se ci riflettiamo può apparire un voto impossibile e irrealizzabile, e così alcuni preferiscono non assumere l'impegno del bodhisattva per paura di non riuscire ad adempiere il voto.

In realtà colui che fa questo voto, l'io che lo pronuncia non è il nostro piccolo ego limitato. E' lo spirito del Buddha che è in ciascuno di noi. E se questo voto è realizzabile è perché tutti gli esseri sono già potenzialmente salvati, tutti gli esseri possiedono già la natura del Buddha, ma non se ne rendono conto, e neanche noi. Ciò che ci avvicina ad esso, che ci permette di realizzarlo, è la pratica di zazen. Ciò che realizza il voto è zazen stesso. In questo modo il voto diventa il desiderio di continuare a praticare zazen eternamente, insieme a tutti gli esseri sensibili, non praticando soli, ma permettendo a tutti quelli che lo desiderano di unirsi alla pratica di zazen. Non praticare soli significa che anche se siamo soli nella nostra camera o sulla cima di una montagna non ci separiamo da tutti gli esseri, lasciamo cadere in noi lo spirito che crea separazioni, opposizioni.

In questo momento si realizza ciò che chiamiamo il doji jodo. Jodo è la realizzazione della Via, doji vuol dire simultaneamente, tutti insieme. Questa è la dimensione assoluta di zazen, nella quale tutti gli esseri non sono più che un solo spirito. Questo vuol dire che lo zazen di una sola persona esercita un'influenza invisibile su tutti gli esseri sensibili, e ogni volta che una persona avanza un po' sulla via, tutti gli esseri sensibili fanno anche loro un piccolo passo in avanti.

E' importante avere fiducia in questa dimensione, altrimenti fare il voto di bodhisattva può sembrare qualcosa di molto difficile e rischiamo di colpevolizzarci per il fatto di non riuscire a realizzarlo.

A questo proposito Shinran diceva più o meno, cito a memoria: "Alcuni credono che abbia molti discepoli, ma in realtà non ne ho alcuno, ho solo una totale fiducia nel potere di Amida (noi diremmo nel potere di zazen, nel potere di risveglio di zazen). Allora tutti coloro che mi seguono non sono i miei discepoli, sono i discepoli del Buddha Amida (noi diremmo sono i discepoli di zazen), io non sono che un intermediario, un rappresentante".

E' importante avere questa umiltà quando facciamo il voto di bodhisattva, altrimenti possiamo considerarci esseri onnipotenti, diventando folli o depressi. Per poter essere questo intermediario, questo rappresentante, occorre che noi stessi facciamo l'esperienza di rimetterci completamente al potere di zazen, abbandonando in zazen i nostri attaccamenti al corpo e allo spirito , lasciando che sia zazen a dirigerci, a trascinarci al di là di noi stessi.

Dogen diceva nello Shoji: "Quando penetriamo nella casa del Buddha, e quando il Buddha ci dirige, seguiamo la sua direzione, allora senza dover fare sforzo alcuno possiamo essere completamente liberi dalla vita e dalla morte." E' ciò che chiamiamo la salvezza, salvare tutti gli esseri. Abbandonare l'ego e rimettersi alla natura del Buddha, il nostro autentico sé, che non appartiene né a noi né agli altri. L'essenza della nostra esistenza, che non possiamo afferrare, che non è qualcosa, che non è posseduta, e che si realizza quando pratichiamo.

Venerdì 11 maggio 2001, mondo

- Volevo sapere se ti consideri sempre un discepolo del maestro Deshimaru.

- Certo. E' strano, perché questa domanda?

- Durante una sesshin abbiamo parlato del rapporto tra maestro e discepolo, del confine tra la fine del discepolo e l'inizio del maestro.

- In questo senso non ci sono confini dal momento che, anche se succediamo al nostro maestro nella discendenza dell'insegnamento dello zen, siamo sempre al tempo stesso il suo discepolo. D'altra parte il maestro Deshimaru era sempre il discepolo di Kodo Sawaki. E' proprio in quanto discepolo di Kodo Sawaki che è diventato maestro. Ma bisogna conservare lo spirito del discepolo. D'altronde molto concretamente, non è una generalità, io percepisco spesso quello che avrebbe fatto, che avrebbe detto il maestro Deshimaru in una certa circostanza, e ciò mi abita completamente. Questo non significa che agisco sempre come lui, perché è anche importante utilizzare le proprie caratteristiche, non imitare troppo il comportamento del maestro. A livello dei mezzi abili per insegnare, ognuno deve utilizzare le proprie caratteristiche, altrimenti suonerebbe falso. Ma io non dimentico lo spirito del maestro Deshimaru, il suo spirito profondo. Ma a livello di azione, del modo di parlare, non cerco di imitarlo, perché ciò suonerebbe stonato.

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- Quando diventiamo bodhisattva, monaci o monache, si dice che continuiamo a produrre del karma, e dall'altra parte che tutti gli errori che facciamo possono permetterci di evolvere, possono partecipare al risveglio. Mi sembrava ci fosse contraddizione.

- No. Certamente continuiamo a produrre karma, poiché produciamo del karma in quanto vivi e dotati di una coscienza. Ciò avviene semplicemente perché il karma è un'azione cosciente, volontaria, non necessariamente negativa. Quando si pensa al karma, si pensa sempre a qualcosa di negativo. Le azioni benevole del bodhisattva per soccorrere tutti gli esseri, costituiscono un buon karma. Ma evidentemente ciò produce degli effetti, quello che chiamiamo i meriti, che sono karma positivo. Ciò che fa il bodhisattva con tutto ciò, è innanzitutto rinascere, poiché non può impedirsi di rinascere per il fatto che questo karma crea una dinamica di rinascita, una energia di rinascita. In seguito divide i meriti con gli altri, li dedica a loro. Per esempio, questa sera facciamo un kito ed è un po' la stessa cosa: significa dedicare i meriti della nostra pratica per venire in aiuto alle persone che ne hanno bisogno, che sono in una situazione disperata. Certo, c'è sempre creazione di karma, ma questo karma non è necessariamente negativo. La sola cosa che non crea karma è la pratica di zazen con la coscienza hishiryo, senza alcuna intenzione, inconsciamente e naturalmente. Ma questo non interrompe completamente il karma passato, può semplicemente aiutare a purificarlo. Allora, la seconda parte della tua domanda era a proposito del fatto che si possa progredire a partire dagli errori. Questo é sicuramente vero, ma a condizione di illuminare i propri errori. Non è fare degli errori che ci fa progredire, bensì avere uno spirito sufficientemente lucido per comprendere la radice di questi errori, e di poterne così sradicare la causa. E' questo il progresso, comprendere da soli ciò che ci fa creare cattivo karma. E' l'aspetto di zazen che consiste nel rischiarare le proprie illusioni. Ma ciò vuol dire anche che nella vita quotidiana bisogna vivere con lo specchio di zazen di fronte, e continuare a rischiarare le nostre illusioni. Effettivamente esiste questa espressione celebre: bonno soku bodai, i bonno diventano satori; ma essi lo diventano solo se li si trasforma tramite la saggezza, l'osservazione, e se li si abbandona, smettendo di ripeterli. Forse dopo commetteremo altri errori, ma almeno dopo quelli che abbiamo rischiarato, che abbiamo visto profondamente, possiamo voltare pagina. In questo modo possiamo continuare a progredire sulla Via senza fare stupidamente degli errori e ripetendoli sempre senza alcuna consapevolezza.

- C'è una differenza tra fare degli errori quando si è bodhisattva e quando non lo si è?

- Naturalmente vi sono parecchie differenze. Possiamo dire in un certo senso che è più grave quando si è bodhisattva, perché si è fatto il voto di proteggere i precetti. Allora inevitabilmente, quando li si trasgredisce, c'è una vera trasgressione, mentre se non si sono ricevuti i precetti e non si è fatto il voto di proteggerli non li si può trasgredire. Ma si tratta del punto di vista limitato. Il punto di vista più profondo è che se si commettono degli errori senza aver ricevuto i precetti, allora sono degli errori impossibili da correggere, ed è più grave, mentre se si è ricevuta l'ordinazione di bodhisattva e i precetti, anche se si commettono degli errori, non possiamo non rendercene conto poiché abbiamo lo specchio dei precetti davanti a noi. E questa coscienza di essere in errore ci aiuta a correggerci. Ma per chi non ha ricevuto i precetti né fatto il voto di risvegliarsi, non c'è trasgressione, ma semplicemente la ripetizione infinita dell'errore, poiché non è presente lo spirito di vedere e di voler correggere l'errore. In questo senso profondo l'errore di un bodhisattva è meno grave dell'errore di qualcuno che non ha ricevuto l'ordinazione. Ma non bisogna approfittarne per dirsi: ho ricevuto l'ordinazione a bodhisattva, allora i miei errori non sono gravi, ne faccio ancora di più. Sarebbe uno spirito completamente perverso. Bisogna fare attenzione a non sviare l'insegnamento

- Possiamo dire che gli errori di un bodhisattva aiutano gli altri?

- Aiutano gli altri quando egli mostra come correggersi, quando è capace di confessare i propri errori, di riconoscerli. Allora è un incoraggiamento, un incitamento per tutti a riconoscere i propri errori. Ho visto e sentito il Maestro Deshimaru stesso riconoscere certi errori. Ed è un insegnamento impressionante, ancora più grande di quando ci predicava la verità. Perché in quel momento ci dicevamo con tutti i suoi condiscepoli: è questa la strada, essere capaci di riconoscere umilmente i propri errori, è così che si può progredire. Questo atteggiamento incita immediatamente ad avere questo stesso sguardo nei confronti di se stessi. Ma il bodhisattva che avesse un atteggiamento cinico (e ho già sentito ciò: le illusioni sono il satori, non bisogna rimanere incastrati, bisogna vivere le proprie passioni, non è grave, questo ci fa progredire, è un po' caricaturale, ma c'è stato un po' questo spirito presso alcune persone), allora è catastrofico. Se ascoltiamo ciò, non possiamo più credere nella via, è un errore totale, è sviare l'insegnamento.

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- In quanto bodhisattva che ha fatto il voto di salvare tutti gli esseri, bisogna intendere che è meglio non mangiare carne?

- Alcuni dicono che è un merito per l'animale se un bodhisattva lo mangia. Così, diviene il corpo di un bodhisattva. Ma anche questa è ipocrisia, perché significa che prima abbiamo dovuto causare sofferenza, uccidere un essere sensibile. Io non credo che si possano salvare le persone uccidendo. Certamente c'è qualche ayatollah che ha pensato così, ma era un po' perverso. Io credo che sia una questione di sviluppo della coscienza e della sensibilità. Il fatto di mangiare carne non è una cosa proibita nello zen, nel buddismo. Ma se riflettiamo profondamente sui nostri voti, avremo naturalmente la tendenza a mangiarne sempre meno, e poi più del tutto. E' una questione di coscienza personale. Per esempio, il maestro Dogen parlava di questa questione all'inizio dello Shobogenzo Zuimonki e raccontava la storia di un monaco che era stato autorizzato a mangiare carne come medicina, come rimedio poiché era malato. Allora lui andava apposta in infermeria per mangiare delle bistecche. Era come dargli un antibiotico. Questo monaco credeva di mangiare la bistecca, ma in realtà era un demone sulle sue spalle a mangiare la bistecca al suo posto. Era abitato da un demone, un demone che mangiava la carne. In una nota che spiega il punto di vista del buddhismo Mahayana Dogen commenta dicendo che il fatto di mangiare carne diminuisce lo spirito di compassione, dato che mangiare carne vuol dire indirettamente associarsi ad un atto di violenza. Mi dispiace per i macellai. Ma a questo proposito, a un certo punto alcuni cambiano mestiere.

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- Nel buddhismo si parla di compassione. E io, nella mia professione, ho a che fare con degli psicologi che parlano di empatia. Mi piacerebbe sapere qual è la sfumatura tra queste due nozioni.

- La radice è la stessa, ma l'effetto è un po' diverso. L'etimologia di empatia è soffrire con, dunque avere la capacità di mettersi al posto dell'altro. E' lo stato d'animo fondamentale del bodhisattva. Ma l'empatia, quale è concepita dagli psicologi e dagli psicoterapeuti, è più limitata della compassione del bodhisattva. Nel bodhisattva l'empatia non lo porta solo ad aiutare l'altro a soddisfare i suoi bisogni, i suoi desideri, ma la compassione è attiva molto più profondamente. La compassione di un bodhisattva consiste nell'aiutare profondamente le persone a risvegliarsi. E' dunque un'attività spirituale. Ciò va molto più lontano dell'empatia, che sfocia semplicemente nell'avere un sentimento di comunione con l'altro. Questo è già positivo, poiché è un sollievo sentire qualcuno che ha dell'empatia. Ma questo sentimento presso il bodhisattva arriva sino alla fine, cioè aiuta realmente gli esseri a risvegliarsi. La compassione non è solo un sentimento, è un'attività. La compassione non è passiva, non è come provare pietà o simpatia, ciò è un po' sentimentale. Nella compassione vi è una forte attività, ed è per questo che il bodhisattva dispiega un'energia e una saggezza infinite per cercare di aiutare tutti gli esseri. Ma questo è il tema che continuerò a sviluppare durante la sesshin.

Venerdì 11 maggio 2001, kusen delle 20:30

In uno dei suoi poemi il maestro Dogen ha scritto: "Sono troppo stupido per diventare un Buddha, ma spero di essere un vero monaco che aiuta tutti gli esseri a passare sull'altra riva." Esprimeva in questo modo totalmente il voto di compassione del bodhisattva, di salvare tutti gli esseri sensibili.

A proposito di questo voto si dice spesso che consiste nell'impegnarsi a far passare tutti gli esseri prima di noi. Ma se rimaniamo fermi all'immagine del fiume e della riva del satori, del nirvana, che è dall'altro lato del fiume, non vediamo bene come potremmo aiutare gli altri a salvarsi se non sappiamo nuotare noi stessi.

Per esempio sarebbe molto pericoloso intraprendere un'escursione in montagna seguendo una guida inesperta, che rischierebbe di far cadere tutti nel precipizio.

In realtà nella Via del bodhisattva non c'è separazione tra salvare gli altri e risvegliare se stessi, poiché non possiamo salvare gli altri, possiamo solo mostrare loro la Via che permette loro di risvegliarsi da soli.

Ed è per questo che il primo voto del bodhisattva non può mai essere separato dagli altri tre che cantiamo sempre insieme. E' per poter aiutare gli altri a salvarsi che facciamo il voto di risolvere i nostri attaccamenti, i nostri bonno, che facciamo il voto di studiare tutti i dharma, gli insegnamenti del Buddha, e di realizzare la Via, Butsudo, poiché possiamo aiutare gli altri solo attraverso quello che siamo, attraverso quello che abbiamo già sperimentato. In questo senso non esiste opposizione tra il concentrarsi sulla propria pratica della Via e aiutare gli altri a progredire.

E poiché il luogo in cui questa marcia in avanti si realizza è il dojo nel quale pratichiamo zazen, nella pratica di zazen non c'è un prima di sé o dopo di sé.

Pratichiamo esattamente la stessa pratica allo stesso tempo, tutti insieme, non esiste prima e dopo. E non c'è neanche un sé da un lato e gli altri dall'altro, ma solo una pratica che si realizza in comune, completamente condivisa. Allora il senso di salvare gli altri prima di sé significa rinunciare al nirvana definitivo, rinunciare a sparire dal ciclo del samsara, rinunciare a sfuggire.

Colui che effettua questa rinuncia in realtà non rinuncia a nulla, perché nell'istante stesso della sua rinuncia questo luogo del samsara nel quale ci troviamo diventa istantaneamente nirvana, liberazione.

Non c'è un'altra riva nella quale rifugiarsi, l'altra riva viene a noi, le due rive sono una sola.

Sabato 12 maggio 2001, kusen delle 7:00

Durante zazen continuate a concentrarvi sulla vostra postura. Inclinate il bacino in avanti, tendete le reni, la colonna vertebrale, la nuca, rientrate il mento. Rilasciate le spalle, rilassate il ventre. Concentratevi sulla posizione delle mani, in particolare i pollici orizzontali. Inspirate ed espirate con calma, andate sino al fondo di ogni espirazione e lasciate passare i pensieri, non perseguite alcun oggetto, accontentatevi di essere semplicemente presenti. Quando pratichiamo in questo modo il nostro spirito diviene come uno specchio. In questo specchio vengono a riflettersi tutti i nostri bonno, cioè tutto ciò che disturba lo spirito e provoca la sofferenza. E' il subconscio che si manifesta. Nella vita quotidiana, per la maggior parte del tempo, non osserviamo questo subcosciente che ci condiziona e ci fa agire nostro malgrado. Ci fa, ad esempio, ripetere ogni giorno gli stessi scenari, gli stessi errori. Praticare zazen significa diventare coscienti di ciò che ci condiziona.

I bonno sono l'argomento della seconda nobile verità dell'insegnamento del Buddha, le cause della sofferenza, ed è il secondo voto del bodhisattva che li risolve, non solo per sé, ma anche per aiutare gli altri. Proprio diventando intimi coi nostri bonno possiamo sviluppare la compassione, l'empatia, vedere che noi e l'altro non siamo differenti, ma siamo più o meno animati dalle stesse illusioni e produciamo le stesse cause di sofferenza. Comprendere se stessi, illuminare le proprie illusioni, permette di comprendere meglio gli altri. I bonno sono innumerevoli, bonno mugin, "così numerosi". Il Maestro Deshimaru ne aveva fatto una lista che ci aveva distribuito per incoraggiarci all'osservazione e ci aveva proposto di scrivere ogni giorno i nostri bonno. Questi bonno sono i seguenti : l'avidità, la brama, ciò che ci porta ad affermarci, a possedere per noi stessi, al di là del bisogno. Certamente ognuno di noi ha bisogno di cibo, di sonno, di protezione, di avere una casa, bisogno di affetti, di riprodursi e di trasmettere. In breve, esistono molti bisogni. L'insegnamento del Buddha non condanna i bisogni. E' importante comprenderli e soddisfarli in modo giusto, equilibrato. I bisogni diventano bonno quando si trasformano in desideri compulsivi, desiderio di essere colmati, soddisfatti, che ci porta a desiderare sempre di più, non solo di possedere un tetto, ma di avere la casa più bella; non solo di nutrirci in modo sano, ma di diventare avidi di buoni pasti, mangiando eccessivamente; diventare ossessionati sessualmente, collezionando i partner. Questa brama può riguardare anche gli ambiti intellettuali: essere avidi di conoscenza, voler sapere sempre di più. Anche nell'ambito spirituale si può desiderare di ottenere dei meriti, o il satori, facendo diventare questo desiderio un bonno, se diventa la ricerca di uno stato straordinario per noi, per il nostro ego.

Il secondo bonno è l'odio. Quando, ad esempio, ciò che vogliamo ci viene rifiutato, allora appare l'odio. Allo stesso modo quando siamo disturbati: ad esempio, se qualcuno nutre un'ambizione, e qualcun altro diventa un ostacolo, ecco apparire l'odio. Ogni sorta di conflitti appare ed è causata dall'odio: oltre ai conflitti tra le persone, nella coppia, in famiglia, anche nei gruppi sociali, tra i paesi: nascono le guerre. Dobbiamo comprendere che tutte le grandi sofferenze del mondo, le grandi calamità, l'inquinamento, i grandi conflitti, hanno tutti la loro radice nello spirito di ognuno. Se non purifichiamo i nostri bonno, il mondo non potrà mai diventare un mondo di pace. In questa prospettiva, l'osservazione dei bonno non è soltanto personale, ma, in un certo senso, è anche una nostra responsabilità che l'uma-nità progredisca. Il terzo grande bonno è l'igno-ranza. L'ignoranza dei propri bonno, il non comprenderne le cause, senza studiare l'insegnamento che permette di risolverle, l'ignorare che esiste una Via al di là dei bonno, in breve, chiamiamo ignoranza essere all'oscuro delle quattro nobili verità.

C'è poi l'orgoglio, che pone il nostro ego al di sopra di quello degli altri, l'arroganza, l'immode-stia. "Gli altri hanno torto, non hanno capito, solo io capisco...".

Il bonno seguente è proprio la convinzione che esista un ego, che possieda un'esistenza sostanziale, al punto da farne il centro del nostro mondo.

Viene poi il dubbio, lo scetticismo, non il dubbio che consiste nel rimettersi in discussione, facendo domande sull'insegnamento fino a comprenderlo perfettamente, ma lo scetticismo che impedisce di impegnarsi.

Vengono poi la pigrizia, l'agitazione, l'impudici-zia, e infine la stessa mancanza di coscienza morale. Questi sono i principali bonno. L'inizio della pratica di zazen è ciò che ci colpisce maggiormente, perché ci sediamo in zazen e pensiamo di ottenere l'illuminazione e non facciamo altro che vedere le nostre ombre. Alcuni talvolta dicono a se stessi: "Divento sempre peggio". E' ciò che Kodo Sawaki chiamava l'oscurità dell'ombra dei pini, che dipende dal chiarore della luna. Più la nostra coscienza diventa chiara in zazen, più chiariamo le nostre ombre. Non bisogna averne paura, perché è un'opera di purificazione, ed è necessario attraversare tutto ciò costantemente, senza colpevolizzarci, in quanto pratica della Via.

Sabato 12 maggio 2001, kusen delle 11:00

Questa mattina ho citato i dieci bonno di base, quelli principali, ma in realtà esiste un numero infinito di bonno. Ne abbiamo contato 108 e ognuno di questi bonno è in realtà una porta di entrata nella Via, perché siamo disturbati da essi, la pace del nostro spirito ne è turbata e cerchiamo di liberarcene: è così che facciamo ricorso alla Via del Buddha. Se non riconosciamo l'esistenza dei bonno, la Via del Buddha non è per noi, non ha alcun senso, è inutile. Proprio per questo l'osservazione dei bonno è il punto di partenza verso il satori. Questo non significa che dobbiamo amare i nostri bonno o essere compiacenti nei loro confronti, ma piuttosto che dobbiamo osservarli profondamente, alla loro radice. Per questo il Maestro Dogen diceva che le persone ordinarie sono coloro che creano illusioni a proposito del satori, mentre i Buddha sono coloro che si risvegliano a partire dalle loro illusioni, rischiarandole, illuminandole. Se durante zazen siamo assaliti da troppi bonno, anche l'osservazione diventa impossibile: a quel punto è meglio ritornare alla concentrazione sulla postura, sulla respirazione. Potremo così constatare che, nonostante siamo assaliti da ogni sorta di demoni, nessuno di essi ci fa muovere. La concentrazione di zazen è ciò che ci consente di confrontarci con i nostri bonno, di realizzare che non siamo obbligati a seguirli. Se ci accontentiamo di concentrarci sulla pratica, possiamo attraversarli, lasciarli passare. In questo modo non abbiamo più bisogno di avere paura. Molti reprimono le loro passioni, i loro desideri, perché temono di non poter resistere: allora fuggono ancora più profondamente nel loro spirito. La concentrazione in zazen ci permette al contrario di lasciarli risalire alla superficie e allora può intervenire l'osservazione. Occorre osservare la causa di tutti i nostri bonno, che è l'attaccamento al nostro ego, l'ignoranza della nostra natura autentica, che ci fa rinchiudere in noi stessi, ci fa sentire limitati, insoddisfatti. Da questa insoddisfazione si generano ogni sorta di desideri, e più cerchiamo di soddisfarli, più ci accorgiamo che non è la soluzione desiderata, perché rinascono costantemente. Non siamo mai veramente soddisfatti. E' in questo modo che si determina la concatenazione: poiché non siamo soddisfatti, cominciamo a detestare, a odiare, e ne deriva tutta la concatenazione dei bonno. Voler eliminare i bonno semplicemente con la volontà non è neppure efficace: è come cercare di tagliare le erbe infestanti che rispuntano sempre più vigorosamente. Il metodo del bodhisattva è quello che insegna Kannon, il bodhisattva della compassione nell'Hannya Shingyo: praticando shoken, l'osservazione giusta. Quando pratichiamo l'osservazione giusta in zazen, possiamo osservare che tutto quanto costituisce il nostro sedicente ego sono solo cinque aggregati: il corpo, che è del tutto impermanente, le nostre sensazioni, che cambiano continuamente, le percezioni, che sono in interdipendenza con l'ambiente circostante, le costruzioni mentali e la coscienza, che dipende sempre da un oggetto. Quando osserviamo ciò osserviamo la vacuità e possiamo realizzare che l'autentico ego è non-ego, senza sostanza. Cosicché la natura dei nostri bonno è vacuità e i nostri stessi bonno sono senza sostanza. A partire da questa osservazione perdono progressivamente la loro sostanza e il loro oggetto diviene anche meno attraente. Non c'è più bisogno di avere paura, tutti gli ostacoli che si presentano nella nostra vita possono essere superati e possiamo diventare veramente liberi, senza rifiutare i bonno, perché la loro radice si purifica attraverso la visione di ku, della vacuità. Possiamo così continuare a vivere tra i fenomeni senza essere trascinati da essi, non c'è più bisogno di temere il samsara, né di ricercare un annientamento nel nirvana, ed è in questo modo che i bonno si trasformano nel satori, così come la neve che in primavera si scioglie e si trasforma in acqua corrente, acqua libera, che può rendere fertile la terra. Quest'acqua corrente è la saggezza, che appare quando osserviamo profondamente i bonno dal punto di vista di zazen, dal punto di vista della vacuità. Il concatenamento dei bonno che provoca il cattivo karma, la sofferenza, nuovi bonno, può essere interrotto. La pratica del bodhisattva significa sperimentare tutto ciò, sperimentare questa liberazione possibile qui ed ora, aiutando così anche gli altri a liberarsi.

Sabato 12 maggio 2001, kusen delle 16:30

Il terzo voto del Bodhisattva è: "Per quanto numerose siano le porte del Dharma, cioè gli insegnamenti, faccio voto di studiarli e realizzarli".

Effettivamente gli insegnamenti del Buddha sono innumerevoli in quanto riguardano tutti gli aspetti dell'esistenza a partire dal risveglio di zazen. Lungo i quarantacinque anni del suo insegnamento Shakyamuni ha guidato ogni sorta di esseri al risveglio, alla liberazione, dando loro un insegnamento appropriato. La base di questo educazione era certamente l'insegnamento delle Quattro Nobili Verità quali ha trasmesso nel corso del suo primo sermone a Benares. Comprendere che l'esistenza è una vita limitata dalla nascita e dalla morte, sottomessa all'imperma-nenza, è causa di insofferenza, di insoddisfazione. Comprendere l'origine di queste sofferenze legate al karma e ai bonno di cui abbiamo parlato questa mattina, ma avere anche fiducia nel fatto che queste sofferenze non sono inevitabili ed eterne, che esiste una liberazione possibile, un cammino, una via verso la liberazione, è ciò che ha insegnato instancabilmente il Buddha per quarantacinque anni.

Ognuna di queste Quattro Nobili Verità è una porta del Dharma collegata alle altre tre. Studiarle è verificarne la verità nella nostra vita, ma soprattutto seguire la Via attraverso la pratica di zazen. Anche la concentrazione su un comportamento giusto nella vita quotidiana, un comportamento in armonia con la vera natura dell'esistenza così come appare in zazen, è la prima serie di porte che Shakyamuni ha aperto per noi. Ma ha anche insegnato a riconoscere come si concatenano i fenomeni che condizionano la nostra esistenza, che ha chiamato le 12 cause interdipendenti.

In particolare la grande porta attraverso la quale il bodhisattva si sforza di passare con tutti gli esseri è la porta delle paramita. È la pratica che permette di andare al di là di tutte le nostre limitazioni, che consente di risvegliarci e condividere il risveglio con tutti gli esseri. Si tratta dei precetti che verranno trasmessi domani nel corso delle ordinazioni. Questi precetti non devono essere praticati come delle interdizioni. Non limitano a una regola rigida, ma sono piuttosto dei consigli e delle raccomandazioni per evitare di creare sofferenza agli altri e a noi stessi, per attualizzare l'autentica natura di Buddha e per vivere in armonia con essa.

Si tratta della paramita del dono, che riguarda evidentemente il dare, il condividere quello che possediamo, ma anche donare il nostro tempo, la nostra energia per la pratica della Via insieme.

Donare noi stessi alla Via.

Donare noi stessi a zazen.

Anche se comporta molti meriti, la pratica del dono è realizzata senza aspettarne alcuno, con uno spirito mushotoku. È allora essa stessa istantaneamente pratica del risveglio, liberazione.

Il bodhisattva pratica poi la pazienza. Pazienza nei confronti di tutti gli imprevisti, gli inconvenienti dell'esistenza: in rapporto alle critiche, agli insulti, talvolta in rapporto al dolore, come in sesshin quando abbiamo male alle ginocchia. La pazienza non consiste nello stringere i denti e irrigidirsi, ma semplicemente nel lasciar cadere lo spirito che si oppone, accettare ciò che è, così com'è. Solo questo. Dedrammatizzare ciò che viene. Così lo spirito diviene leggero.

C'è poi la pratica dello sforzo, dell'energia, l'energia che mettiamo per continuare la pratica, anche se siamo stanchi.

Sarebbe necessario un commento a proposito di ognuna di queste pratiche; le paramita meriterebbero una sesshin intera. Qui voglio soltanto mostrarvi una visione d'insieme.

Le ultime paramita sono la pratica di zazen, la meditazione, e infine la saggezza.

Queste sei paramita sono le pratiche essenziali di un bodhisattva, sulle quali egli si concentra non solo nel corso di una vita, ma nel corso di un numero infinito di esistenze successive.

Per esempio Shakyamuni, prima si divenire Buddha, ha praticato queste paramita per un tempo infinito. Le porte del Dharma possono essere insegnate dagli esseri umani, ma esiste ancora un numero infinito di porte: si tratta dell'insegnamento degli esseri insensibili, cioè l'insegnamento della natura, delle montagne, dei fiumi. Tutti i fenomeni mostrano la verità per gli esseri sensibili. Allora dobbiamo sviluppare la nostra ricettività, ritornando costantemente alla pratica di zazen, che è la porta essenziale di tutti i Dharma.

Si può dire che zazen è la porta senza porta, la porta che abolisce le opposizioni tra interno ed esterno, tra mondo delle illusioni e mondo del risveglio, che è al di là di ogni pratica, al di là di ogni intenzione di praticare alcunché per arrivare in qualunque luogo. E' la realizzazione stessa.

Sabato 12 maggio 2001, mondo

- Penso sia compito di ciascuno di noi diffondere la pratica e il pensiero del Buddha. Ma è una cosa che faccio poco. Mi sono chiesta perché. Questo perché la pratica di zazen è una cosa così preziosa e intima che mi ispira di più il desiderio di proteggerla che di divulgarla. L'ho fatto in questi anni solo con persone di cui ho completa fiducia, e che so che hanno molta fiducia in me. In altri casi ho timore di sprecare zazen.

- Mi chiedi se è bene ?

- Si.

- Non bisogna avere paura, poiché zazen non può essere macchiato. Il vero zazen è al di là di tutte le deformazioni e di tutte le illusioni. E quando mostriamo la pratica di zazen a un grande numero di persone, che hanno ogni sorta di karma o di stato d'animo, non possiamo mai sapere prima chi verrà toccato e come. Quindi non credo che sia opportuno scegliere a chi insegnare, perché non sappiamo. A volte pensi : "Questa persona va benissimo, proteggerà zazen" e forse non sarà così; occorre verificare nella durata, nel corso di un certo periodo. Proprio le persone che all'inizio pensavamo non avessero la vocazione per zazen, sono quelle che alla fine si rivelano le più fedeli, nel corso di dieci o venti anni, e con un buono spirito. L'esempio migliore è Shakyamuni stesso che per quarant'anni non ha mai scelto i suoi uditori, i suoi discepoli, ha accettato quello che veniva e ha dato loro fiducia. Dare fiducia non significa offrirla solo alla persona, perché se guardiamo la persona ognuno ha un ego limitato. E col nostro ego non possiamo far altro che commettere errori. Offrire fiducia è dare fiducia nella natura del Buddha di ognuno. Anche gli esseri che hanno il karma peggiore possiedono la natura del Buddha e quando si siedono in zazen possono incontrarla e ritrovarla. Non è possibile decidere come avviene questo incontro, non si può sapere prima. È meglio mostrare generosamente zazen a tutti quelli che vogliono e poi vedere cosa succede. Se si è responsabili di un piccolo gruppo, una volta insegnato zazen bisogna verificare che la pratica continui nel modo giusto. Per quanto riguarda il diffondere la pratica non credo che si debba scegliere. Zazen rifiuta le persone che non sono pronte, si eliminano da sole, se non è il loro momento se ne andranno. Se non possono capire lo spirito mushotoku, se vengono solo alla ricerca di una tecnica di benessere, rapidamente dubiteranno di zazen e diranno: esistono tecniche migliori e a se ne andranno altrove. Ma le persone che continuano sono quelle che hanno un grande incontro con zazen, e questo incontro non è possibile prevederlo e non sei tu che puoi deciderlo. Dove pratichi ?

- A Fossano.

- Perché ti poni questo problema? A Fossano si è posto il problema se divulgarlo o non divulgarlo?

Per quanto è possibile è meglio divulgarlo. È ciò che il Maestro Deshimaru ci ha insegnato. Ma bisogna trovare i mezzi appropriati per fare ciò. Se si usano mezzi cattivi si va al contrario. Bisogna trovare dei mezzi che siano nello spirito di zazen, non fare del marketing. Occorre trovate i mezzi abili del bodhisattva, upaya, e il modo migliore è attraverso il proprio esempio, nella relazione da persona a persona. Questo è ancora più efficace che appendere manifesti.

Dopo oltre trent'anni di vita nel Sangha vedo che questo problema continua a porsi. Ho visto spesso il Maestro Deshimaru arrabbiarsi, perché alcuni discepoli dicevano: "Non bisogna divulgare zazen, deve rimanere segreto, non bisogna farlo scoprire". Una volta un maestro Rinzaï venne in Francia e scrisse al Maestro Deshimaru criticandolo perché appariva in televisione, e faceva appendere manifesti del campo estivo per le vie di Parigi. Per lui era come mettere dei pannelli indicatori per la Via, e quando ricevette questa lettera andò molto in collera. Disse: "Questo monaco non ha capito niente!" Mi chiese di rispondergli e abbiamo scritto insieme la risposta nella quale gli diceva che non aveva capito per nulla lo spirito del bodhisattva, e che avrebbe non solo continuato, ma fatto ancora di più. Infatti fece affiggere dei manifesti davanti ai sexy shop di Rue St. Denis ! (risate). Forse era un po' esagerato, ma indicava che in quanto bodhisattva non si deve esitare ad andare nei posti più sporchi per mostrare la Via. Dal momento che non si sa mai chi potrà essere toccato, non si può decidere. Fra i più grandi discepoli di Cristo c'erano anche delle prostitute e anche fra quelli del Buddha. Quindi, non scegliere !

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- C'è un momento, durante zazen, quando il dolore e stanchezza diventano troppo forti, nel quale lasciare la postura ?

- E' possibile invece abbandonare lo spirito che ha voglia di scappare, ma questa decisione è molto delicata. Per quanto è possibile è meglio pazientare. Il Maestro Deshimaru diceva sempre che bisogna stare attenti a non cadere nell'eccesso della mortificazione. Ognuno di noi deve capire dov'è il limite. Ma se sviluppiamo nel modo migliore la paramita della pazienza, allora è possibile non muoversi, ma in questo caso non si tratta più di una mortificazione. Sviluppando la pazienza c'è un abbandono dello spirito che si oppone e che crea la sofferenza. E a quel punto anche se abbiamo male alle ginocchia o alla schiena, questo dolore rimane qualcosa di limitato, e quindi di sopportabile. Se possiamo fare questa esperienza, se abbiamo questa pazienza, questa diventa un'esperienza preziosa che aumenta la fiducia nelle nostre capacità di affrontare le avversità, e nella vita quotidiana ve ne sono spesso. Pazientare non è tempo perso, può essere molto efficace. Ma io non posso decidere al tuo posto qual è il momento di sciogliere la postura.

- Però pensavo... fino ad un certo momento ho pazientato, e la determinazione e la concentrazione erano forti, e anche la pazienza. E c'era anche l'osservazione dello spirito che si opponeva, poi però il dolore era tale che non riuscivo più a stare dentro, e ho lasciato la postura.

- E' possibile, non devi colpevolizzarti. Zazen non deve diventare una competizione con se stessi. Non devi avere l'impressione di aver subito una disfatta perché hai tolto l'incrocio alle gambe. Zazen è smettere ogni combattimento, piuttosto che continuare a battersi con se stessi. E' giusto cercare di sviluppare la pazienza, ma quando si arriva al punto che descrivi tu è meglio fare gasshô. A quel punto può anche essere un atto di umiltà dire non sono il più forte.

- Era quello che pensavo, però ritenevo di essere presuntuoso. Grazie.

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- Alla prima persona hai risposto che non bisogna scegliere le persone cui mostrare zazen. Bisogna sentirsi pronti, ricevere un'autorizzazione per esempio da te, per poter insegnare ? Viene da noi stessi o ad esempio è un godo che dice che puoi insegnare ?

- Siamo alla ricerca proprio di qualcosa di simile in seno all'AZI. Innanzi tutto ci sono talmente tanti modi di insegnare che questa autorizzazione può venire solo se si occupa una certa posizione in un dojo. Shusso, Godo... Nella vita quotidiana le opportunità di insegnare sono innumerevoli, e non c'è bisogno di un'autorizzazione speciale. Bisogna autorizzare se stessi, ma anche sentirsi pronti: se non si è pronti a parlare di zazen si possono scoraggiare le persone e non comunicare la voglia di praticare. Dipende da ognuno di noi sentire, e sentire il momento opportuno. Questo non vuol dire andare a predicare zazen a tutti e in ogni momento, sarebbe stupido. È vedere quando una persona può essere ricettiva. Non è tanto una questione di persone quanto di momento: momento in cui le persone possono accogliere o momento in cui sono invece rinchiuse in se stesse e non servirebbe a nulla. Per quello che riguarda l'autorizzazione a insegnare in un dojo, a fare conferenze, per quello che riguarda i pilier, i kyosaku, è il responsabile del dojo che decide. Poi, per essere shusso, o godo, o veramente un insegnante, allora deve essere un altro godo a dare l'autorizzazione. Stiamo andando in questa direzione proprio per mettere un po' di ordine, altrimenti è il caos. Vorremmo che ogni dojo o gruppo di zazen abbia un maestro di riferimento, che in accordo e in dialogo con il responsabile decida chi può insegnare. Si tratta di non lasciare insegnare troppo presto persone impreparate, perché questo potrebbe essere catastrofico per chi riceve l'insegnamento, ma soprattutto per la persona stessa. Abbiamo avuto un numero di casi di dojo in cui non c'erano persone che potessero aiutare e quindi è stato chiesto a dei principianti di dirigere, forse credendo di incoraggiarli, assegnando responsabilità al di sopra delle loro possibilità. Questo ha creato nelle persone che dovevano dirigere un grande malessere. Questa situazione può mettere le persone in crisi, quindi occorre fare molta attenzione. In ogni caso, insegnare non è soltanto essere seduti al posto del responsabile e fare dei kusen: esiste un insegnamento silenzioso, la presenza costante nel dojo, il seguire le regole del dojo, facendo il samu, con uno spirito di accoglienza: anche questo è un insegnamento, non solo fare dei kusen.

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- A me non piacciono le cerimonie, volevo che tu mi spiegassi meglio a cosa servono, che mi parlassi della cerimonia.

- E' un soggetto molto lungo. Per prima cosa sappi che non è obbligatorio partecipare alla cerimonia. Se veramente non vi piace, non avete voglia di partecipare, rimanete dietro e fate semplicemente gasshô. Il modo migliore per capire la cerimonia è comprendere che ognuno dei suoi aspetti non è altro che l'espressione e la continuazione di zazen. L'ho già spiegato in molti mondo. Lo ripeto e può servire per coloro che non l'hanno mai sentito. I gesti del corpo nella cerimonia sono in unità e in armonia con zazen: fare gasshô è realizzare questa unità, in se stessi, fra la dimensione dell'ego, rappresentata dalla mano destra, che fabbrica, e la mano sinistra che rappresenta la dimensione del Buddha.

Unire le due mani in questo modo è un gesto che troviamo in tutte le religioni: riunire l'aspetto dell'ego e l'aspetto che trascende, è il gesto religioso per eccellenza. Anche inchinandoci in gasshô, manifestiamo il nostro rispetto e diventiamo unità con gli altri, manifestiamo rispetto per la natura di Buddha che è in ciascuno di noi. È un bel gesto, se lo facciamo, se sentiamo questo spirito, lo sperimentiamo come sperimentiamo lo spirito di zazen facendo zazen. Poi c'è sanpaï, la seconda pratica con il corpo durante la cerimonia. La prosternazione, è la continuazione e l'espressione di zazen: abbandonare l'attaccamento al corpo e allo spirito, abbandonare lo spirito orgoglioso, diventare umili. Umiltà come ritorno all'humus, alla terra. Mettere la fronte contro la terra è un gesto di umiltà, è il modo migliore per imparare ad abbandonare l'ego. Ed è per questo che i monaci tibetani lo propongono come pratica preliminare: 2000 sanpaï. Non si tratta poi di una pratica così negativa, noi non ne facciamo così tanti, solo tre volte al giorno, non molti.

Trovo che occorra fare più sanpaï. Per esempio possiamo sviluppare la pratica di recitare i nomi dei patriarchi, che sono sul ketsumyaku, facendo ogni volta un paï e sono novanta ! E' un buon esercizio per ammorbidire l'ego, e per sentirsi collegati: è anche questo il significato di sanpaï. Fare sanpaï davanti al Buddha significa farlo davanti alla più alta dimensione dell'esistenza. Poi c'è il godo che offre l'incenso all'altare a nome di tutto il Sangha. E questa è la pratica del fuse, in questo caso un fuse di incenso. Esprimere questo spirito del dono è la continuazione dello spirito di zazen. Poi c'è il canto, che si fa con la stessa respirazione che abbiamo in zazen, con l'hara, non solo con le labbra, e quindi la stessa respirazione di zazen. Cantare l'Hannya Shingyo più a lungo possibile, andando fino in fondo ad ogni respirazione, è un grande aiuto per i principianti che hanno difficoltà a respirare profondamente. Cantare l'Hannya Shingyo con il corpo è il suo significato ultimo: realizzarsi inconsciamente. Non posso fare un kusen sull'Hannya Shingyo, ma è l'essenza stessa della saggezza e della compassione del Buddha. Poi cantiamo i quattro voti del bodhisattva, il tema di questa sesshin, e siamo del tutto in unità con zazen. Non vedo nulla nella cerimonia che sia differente da zazen, tutto è armonia con zazen e sua manifestazione.

- E tutti i suoni ?

- Servono a ritmare la cerimonia, per far sì che ci sia un'armonia: la clochette serve a far scendere tutti insieme per i sanpaï. Quando cominciamo insieme il canto, il mokugyo dà il ritmo E per coloro che praticano, i suoni sono una buona occasione, un buon esercizio per imparare a concentrarsi.

D'accordo ?

- Sì.

- In ogni caso la tua domanda è una buona occasione per i principianti.

Sabato 12 maggio 2001, kusen delle 20:30

Questa sera canteremo il Fukanzazengi. Si tratta di un testo del Maestro Dogen nel quale è spiegato il fondamento, il senso del modo di praticare zazen. Viene cantato tradizionalmente ogni sera nei dojo. Anche lì non c'è nessuna separazione tra ciò che si canta e la pratica di zazen. Coloro che lo desiderano possono procurasi la traduzione dallo shusso.

Dogen afferma che anche se la Via esiste ovunque, se non si pratica non è realizzata. Se ci si accontenta di una comprensione intellettuale non c'è realizzazione.

Poi spiega in dettaglio il modo di praticare, ma aggiunge che in definitiva zazen non ha nulla a che vedere con la postura seduta, cioè non è limitato alla postura seduta. E soprattutto zazen non è semplicemente una tecnica di meditazione, ma la pratica-realizzazione di un risveglio perfetto. Se pratichiamo con lo spirito giusto, quello spirito che Dogen definisce hishiryo, pensare dalle profondità del non-pensiero, rapidamente la camera del tesoro si aprirà e ciascuno potrà goderne liberamente.

Domenica 13 maggio 2001, kusen delle 7:00

Durante zazen non dormite, tenete gli occhi ben aperti, rientrate il mento, tendete la nuca, la colonna vertebrale e non lasciate la vostra postura infossarsi. La postura deve avere uno slancio, il corpo è completamente esteso tra il cielo e la terra. Non vi accontentate di praticare approssimativamente, ma mettete tutta la vostra energia e la vostra attenzione nella pratica di ogni istante. La pratica dello zen significa non vivere a metà, ma vivere completamente, vivere completamente una vita illimitata, non circoscritta dai nostri oggetti di desiderio.

Il quarto voto del bodhisattva è: "Per quanto perfetta sia la Via del Buddha, Butsudo, faccio il voto di realizzarla".

Si insegna sempre che lo zen è solo zazen, questo vuol dire solo zazen nel momento in cui facciamo zazen. La pratica di zazen ha la capacità di farci realizzare la Via del Buddha, ma questa Via è infinita, mujo, che in questo caso non significa impermanente, ma infinito, illimitato. Così, quando si riceve l'ordinazione a bodhisattva, come molti fra di voi oggi, non si tratta di un raggiungimento, non si è arrivati da qualche parte, ma è piuttosto il punto di partenza, l'inizio di una Via infinita. In certi sutra la Via del bodhisattva è suddivisa in dieci tappe, ma nello zen non amiamo le tappe; ogni giorno ci concentriamo semplicemente sulla pratica dell'oggi, considerando ogni giorno come un giorno nuovo, ogni vita come una vita nuova che, con la pratica di zazen, non ristagna, ma si evolve: è un cammino. Quando pronunciamo i voti del bodhisattva, possiamo finalmente percepire una grande gioia poiché è il momento in cui entriamo in questa Via illimitata. Fino ad ora la nostra vita era dispersiva, spesso un po' caotica, cercavamo di raggiungere ogni sorta di obiettivi senza crederci troppo. Quando diventiamo bodhisattva orientiamo tutta la nostra energia verso la realizzazione del risveglio per il bene di tutti gli esseri, per aiutare gli altri. Così il bodhisattva abbandona la pratica egoista, non cerca di accumulare dei meriti per sé, ma pratica il fuse, il dono, e in particolare il dono della sua attività, della sua pratica. Quando diventiamo bodhisattva riceviamo i precetti: il principale precetto è quello di approfondire la pratica di zazen, in modo da vivere i precetti non come delle interdizioni, ma come realizzazione della natura del Buddha. E' al tempo stesso progressivo, e immediato. Ogni pratica è risveglio e man mano che continuiamo, questo risveglio si approfondisce, prendiamo coscienza dell'impermanenza, di mujo e non sciupiamo l'istante presente. Apprendiamo sempre di più a canalizzare la nostra energia in direzione della Via, che è per noi la cosa essenziale della vita. Così la pazienza si sviluppa e lasciamo cadere sempre più l'attaccamento ai successi, ai guadagni materiali, alla fama. Continuando la pratica si sviluppa l'intuizione, ma non l'intuizione che consiste nell'indovinare i pensieri degli altri, ma quella che ci permette di capire sempre più intimamente l'insegnamento del Buddha, non esteriormente, ma attraverso la nostra esperienza. Quando questa intuizione diventa profonda, allora appare la saggezza, e ci fa vedere la vacuità di tutte le opposizioni dualiste; possiamo così superare le contraddizioni architettate dal nostro cervello. Lo spirito diventa completamente libero e in pace.

A questo punto del cammino il bodhisattva potrebbe dimorare in questa pace, in questa libertà e permanere nel nirvana, abbandonando il mondo, ma in virtù della sua compassione prosegue il suo cammino nel mondo dei fenomeni, con tutti gli esseri, sviluppando i mezzi per aiutarli. Aiuta tutti gli esseri con tranquillità, serenamente. A questo punto il bodhisattva, anche se ha accumulato numerosi meriti attraverso la sua pratica, ne fa dono a tutti gli esseri e si concentra solamente sull'insegnamento. L'ultima tappa è quella nella quale il bodhisattva ha realizzato completamente tutte le virtù e tutte le conoscenze, ha realizzato la perfezione di un Buddha, il suo corpo e il suo spirito diventano il corpo e lo spirito del Buddha. E' pronto a rinascere come Buddha, come Shakyamuni Buddha, come il futuro Buddha Maitreya. Questo cammino infinito manifesta che la Via del Buddha è illimitata, non è circoscritta a noi stessi, non è limitata nel tempo: è senza inizio e senza fine. Oggi quattro nuovi bodhisattva entreranno in questo cammino e quindi è un giorno felice.

Domenica 13 maggio 2001, kusen delle 12:00

Alla fine della sesshin concentratevi bene. I voti di bodhisattva sono immensi, la Via è illimitata, ma la realizzazione è ad ogni istante. Così, non perdete il vostro tempo e concentratevi sulla pratica di questo istante, senza bisogno di aspettare qualche cosa. Praticare zazen significa smettere di aspettare, smettere di aspettare altre cose, diventare totalmente unità con la vita di ogni istante. E' praticando così che inconsciamente, automaticamente e naturalmente i voti si realizzano.

Traduzione: Maresa Di Noto
Annotazione: Fabrizio Parente, Giusi Losi, Guglielmo Capelli, Enrico Lo Vecchio