26/28 maggio 1995
Sesshin di L'Arche diretta dal Maestro Roland Yuno Rech
Yui Butsu yo Butsu - Da Buddha a Buddha Capitolo dello Shōbōgenzō del Maestro Dōgen
Venerdì 26 maggio 1995, kusen delle 7:00
Sedetevi con cura nella postura di zazen. Non iniziate se avete l’impressione di non essere equilibrati. Poi, una volta nella giusta postura, non muovetevi più. Osservate il vostro corpo. Concentratevi sui punti più importanti: colonna vertebrale eretta, tesa a partire dalla vita, ma senza rigidità. Non bloccatevi, è come se voleste spingere il cielo con la testa. Rilassate le tensioni inutili (plesso solare, ventre). Concentratevi sulle mani: il taglio delle mani è in contatto con il basso ventre, i pollici si toccano senza tensioni, senza formare né montagne né valli. Durante zazen potete concentrarvi su questo contatto, un contatto dolce. Evitate di muovervi, se non per correggere il tono dei muscoli. Le reni non sono né troppo tese, né rilassate. Trovate l’equilibrio giusto nell’inclinazione in avanti.
Quando vi sentite bene nella postura potete cominciare a osservare la respirazione, l’espirazione, seguita immediatamente dall’inspirazione. La vostra respirazione deve essere fluida. Andate oltre i vostri blocchi, sino al fondo di ogni espirazione, accompagnandola senza forzare, con una pressione sugli intestini verso il basso. Espirate con calma e, alla fine, lasciate che l’inspirazione avvenga naturalmente. Ripartite subito con una lunga espirazione. Il ritmo della respirazione si stabilizzerà progressivamente, diventando ampio come l’onda lunga dopo che la tempesta si è calmata. Ogni espirazione è come una grande onda che s’infrange sulla riva; l’inspirazione è come la risacca.
Nell’insegnamento dello Zen si parla spesso del Dharma del Buddha, del risveglio del Buddha. Il significato profondo della nostra pratica consiste nel realizzarlo completamente e intimamente. Questo Dharma, questo risveglio non può essere realizzato attraverso il nostro ego, con la coscienza personale. Non possiamo comprenderlo attraverso lo spirito umano ordinario. Quando entriamo nel dojo per praticare zazen dobbiamo abbandonare completamente lo spirito umano ordinario, lo spirito che seleziona, sceglie, rifiuta… lo spirito che vuole sempre afferrare o fuggire. Non esiste alcuna libertà autentica finché si è diretti dallo spirito di questo ego e, poiché l’ego non può abbandonarsi da solo, zazen consiste nel concentrarci sul corpo, la respirazione, la postura…
Nel momento in cui entriamo nel dojo, diventiamo attenti a ogni gesto. Invece di agire macchinalmente, prendiamo coscienza del nostro corpo e lo abitiamo totalmente. Quando facciamo gasshō, siamo completamente in gasshō, non si tratta di un gesto rituale vuoto. Sensei diceva: “La mano sinistra rappresenta Buddha, la mano destra se stessi. Fare gasshō rappresenta l’incontro di se stessi col Buddha”. Facendo questo gesto dimentichiamo noi stessi, esprimiamo il nostro rispetto nei confronti di tutti gli esseri coi quali pratichiamo zazen. Non facciamo gasshō a metà, ma con un impegno totale. E’ la stessa cosa quando assumiamo la postura: non ci accontentiamo di posare le natiche sullo zafu aspettando che il tempo passi, ma lo facciamo con un totale impegno, come se ne dipendesse la nostra vita, un impegno vivente. Non seguiamo i nostri pensieri personali, viviamo totalmente con il corpo.
Esistono molti modi di praticare zazen, ma uno solo è quello giusto. Esiste lo zazen durante il quale ci battiamo contro noi stessi, opponendoci ad esempio al dolore alle ginocchia; quello nel quale passiamo il tempo a ruminare le nostre ossessioni; lo zazen nel quale dormicchiamo o ci compiacciamo in una sorta di estasi, nel quale creiamo attaccamenti, e si tratta dello zazen dell’essere umano ordinario. E’ sempre lo spirito dell’ego che ci dirige. Allo stesso modo possiamo fare zazen per ottenere una condizione speciale dello spirito, perché vogliamo diventare Buddha, raggiungere il satori… Continuiamo così a trasmigrare seguendo il nostro spirito di attaccamento o di rifiuto.
L’autentico zazen del Buddha inizia quando non cerchiamo nulla. Presenti nella postura, attenti alla respirazione, osserviamo solo un istante ciò che appare e scompare e lasciamo passare.
Non è possibile evitare i propri fantasmi, i propri desideri. Voler realizzare ciò non è lo zazen del Buddha.
Occorre reagire rapidamente quando avviene qualcosa nel dojo, essere attenti agli altri, caritatevoli quando è necessario. Non siate inquieti, questo genere di fenomeni può avvenire in sesshin: è una reazione forte, ma poi va molto meglio. Prendete una coperta, stendetela fuori, fatelo respirare e tutto passerà. Nella vita ordinaria molte persone sono stressate e non se ne rendono conto. Il merito della sesshin è di servire da specchio. Possiamo tornare rapidamente alla condizione normale, specialmente qui dove la vita è semplice e naturale.
Venerdì 26 maggio 1995, kusen delle 11:00
L’autentico risveglio del Buddha, il vero risveglio non può essere realizzato seguendo il nostro spirito ordinario, seguendo il funzionamento della mente che vuole, che non vuole, che crea categorie a proposito di ogni cosa, opinioni che rinchiudono la vita nelle proprie concezioni. Zazen realizza una totale rivoluzione in rapporto al modo abituale di funzionamento della mente. Non è più possibile funzionare con “bisogna fare questo, bisogna fare quello”. Zazen ci trascina oltre questa dimensione ordinaria. Nel dojo è lo sforzo che ci porta al di là di ogni sforzo, lo sforzo necessario per assumere la postura di zazen, e, una volta assunta, seguirla affidandoci ad essa con fiducia. Non si tratta di uno zazen teso, volontaristico. Si tratta piuttosto di assumere una postura stabile e lasciar fare, correggendola semplicemente di tanto in tanto. Col tempo tutto ciò avviene naturalmente. I principianti devono invece seguire le raccomandazioni del godo.
La rivoluzione di zazen consiste nel creare la propria vita a partire da zazen, senza voler imitare un modello, nemmeno Buddha. Ispirarsi al suo insegnamento, meditarlo, ma nella vita reale, senza imitazioni, con una creazione di ogni istante, lasciando che sia zazen ad ispirarci, tornando regolarmente allo spirito vasto di zazen. Lo spirito del Buddha è lo spirito liberato da tutti i suoi attaccamenti. La cosa più importante è vedere chiaramente che cosa avviene, accettare ciò che è nell’istante presente, riconoscere ciò che succede in sé e tornare alla postura, senza ristagnare su nulla, realizzando lo spirito vasto che riunisce ogni cosa.
E’ quanto esprime il mondo tra Seigen e Sekitō, che gli aveva chiesto qual era l’essenza più segreta del buddhismo: “Questo è impossibile da afferrare e da comprendere”. L’ego desidera sempre spiegazioni, vuole capire, possedere.
“Il vasto cielo non è disturbato dal passaggio delle nubi”. Lo spirito vasto non è disturbato da nulla, è oltre ogni oggetto. Non è necessario creare il vuoto nel proprio spirito, recidere le illusioni: se praticate zazen con questo obiettivo, la vostra pratica ne sarà disturbata. Osservate dal punto di vista di zazen che avete questo obiettivo, accettatelo e lasciate passare. Inglobate e andate al di là di ciò che sorge dal vostro spirito.
Questa mattina parlavo delle differenti maniere di praticare zazen con lo spirito dell’essere umano ordinario. Non è necessario rimpiangerlo o volersi opporre ad esso. Ciascuno è al contempo essere umano e Buddha, come il diritto e il rovescio della stessa cosa. Zazen guarda dal punto di vista del Buddha con simpatia, ma senza attaccarsi. In questo modo potete allentare la tensione che lo spirito ordinario grava sulla vostra vita creando sempre nuove cose da desiderare o da evitare.
Durante la sesshin cercate, per quanto è possibile, di tornare sempre al "qui" del vostro corpo e all’ "ora" della vostra respirazione. Lì la vostra vita è molto semplice, senza le complicazioni che vi impediscono di essere in pace con voi stessi. Zazen significa rientrare a casa e sedersi in pace, con se stessi e con gli altri. Finché questa pace non è realizzata, avveleniamo il nostro ambiente. In questo senso la concentrazione sulla vostra pratica è il miglior regalo che potete fare agli altri.
Venerdì 26 maggio 1995, kusen delle 16:00
Durante zazen concentratevi sulla postura. Concentrarsi sulla postura non significa fare ginnastica, non è un esercizio fisico. Significa piuttosto smettere di porre tutta la propria energia nei pensieri personali, smettere di creare divisioni, separazioni. Molte persone, anche praticando zazen, non ne comprendono il punto essenziale. Alla fin fine iniziano a dubitare dello stesso zazen, perché pensano ad esempio che zazen dovrebbe permettere loro di realizzare lo stato nel quale non esiste più alcun fenomeno o illusione. Questo stato sarebbe qualcosa di vicino alla morte, come un elettroencefalogramma piatto. Poiché non riescono a realizzare questa condizione, cercano ogni sorta di mezzi per eliminare le loro illusioni, e la lotta continua. Zazen è più semplice: vedere ed accettare ciò che è, ad ogni istante; non creare opposizioni tra vacuità e fenomeni, pensiero e non-pensiero, desiderio e non-desiderio. Significa semplicemente guardarsi con uno spirito che non giudica ciò che avviene d’istante in istante. Significa vedere come creiamo separazioni ad ogni momento, come ci rinchiudiamo in un mondo limitato invece di rimanere in contatto, in unità con la nostra vita di ogni istante. Al contrario, ci trinceriamo dietro i nostri punti di vista limitati. Evidentemente, a partire da quel momento, non possiamo che desiderare altro, perché vogliamo ricercare la dimensione illimitata della nostra vita. Ma nessuno, se non noi stessi, ce ne ha separati. Dal momento in cui ci attacchiamo al nostro ego, ci identifichiamo con esso, la macchina dei desideri riparte e questo processo diventa inarrestabile. Iniziamo la nostra trasmigrazione attraverso ogni sorta di oggetti ai quali a un certo punto ci attacchiamo. Se non riusciamo a raggiungerli siamo sfortunati; mentre invece, se li raggiungiamo, siamo delusi perché ci aspettavamo qualcosa di più vasto, di meno limitato. Il mondo nel quale viviamo è il mondo che abbiamo creato, quello delle nostre fantasmagorie, del nostro cinema mentale.
Praticare zazen significa guardare tutto ciò, restaurare la nostra visione, cambiare radicalmente il nostro punto di vista, guardare la vita dal punto di vista della postura di zazen, cioè da un punto di vista vasto, al di là delle nostre costruzioni mentali. Anche la via dello Zen che pratichiamo non deve diventare una via tracciata, qualcosa di nuovamente limitato dalla nostra comprensione, altrimenti diventerà una causa di disturbo per noi nella nostra vita.
Si oppone spesso zazen alla vita quotidiana, mentre la pratica di zazen in realtà riunisce, non separa il quotidiano dalla pratica nel dojo. Non dobbiamo attaccarci a una concezione fissa del Buddha, dello Zen. Non dobbiamo fare come nelle religioni nelle quali si oppone il mondo celeste alla terra. Quando si dice: “Spingete il cielo con la testa e la terra con le ginocchia”, non si tratta solo di stretching, ma di riunire veramente nella postura il cielo e la terra, l’ideale e la realtà, non opponendoli.
Quando il Maestro Issan domandava a Kyōgen: “Mostrami il tuo viso prima della nascita dei tuoi genitori”, non impartiva un kōan assurdo e non risolvibile. Indicava semplicemente il senso stesso della nostra pratica. Non possiamo trovarlo nei sūtra, nei libri. Una comprensione intellettuale non permette di realizzarlo. Il nostro viso prima della nascita dei nostri genitori è lo spirito di zazen che non crea separazioni. E’ come rinascere nel mondo del Buddha, che non è separato dal mondo nel quale viviamo. E’ come girare la testa e, in un istante, cambiare punto di vista.
Venerdì 26 maggio 1995, kusen delle 20:30
Poco fa qualcuno ha posto una domanda relativa all’immaginario. In zazen non cerchiamo di sopprimere l’immaginario. Al contrario, concentrandoci sulla postura, sull’espirazione, osserviamo il sorgere delle immagini, d’istante in istante, come bolle che risalgono dalla profondità dell’acqua. In genere si considera l’immaginario qualcosa di falso. Nel buddhismo esiste l’immagine a proposito dei fiori di vacuità che dice:“Quando qualcuno ha gli occhi malati, vede dei fiori nel cielo”, oppure qualcuno che ha bevuto troppo o preso dell’LSD vede nel cielo cose che non esistono. In realtà la nostra pratica consiste nell’osservare kūge, i fiori nel cielo, ma nell’osservarli con una visione ripristinata, senza sopprimerli. Vedere realmente i nostri fiori di vacuità, vedere le nostre immaginazioni in quanto tali diventa satori.
Esiste una forma di immaginazione che deriva dalla pratica stessa, ed è quella che consiste nell’immaginare il satori come questo o come quello, cercando a tutti i costi di rendere la nostra pratica simile a ciò che abbiamo immaginato. Tutto ciò che immaginiamo riguardo alla realizzazione non è di alcun aiuto per la realizzazione. L’autentica realizzazione non assomiglia mai all’idea preliminare che ce ne siamo potuti fare, poiché significa solo vedere, ma vedere con una visione ripristinata.
Qualcuno mi ha fatto notare che dicevo spesso “vedere dal punto di vista di zazen”. E’ proprio per spiegare che non si tratta di vedere attraverso la nostra coscienza ordinaria che si attacca agli oggetti, ma vedere estinguendo lo spirito che crea una separazione tra soggetto ed oggetto. Tokusan aveva avuto un lungo mondō col Maestro Ryūtan. Alla fine Ryūtan gli diede una candela per raggiungere la sua camera. Nel momento in cui Tokusan l’afferrò, Ryūtan spense la fiamma. Istantaneamente tutte le immagini, tutti gli oggetti scomparvero e in questa oscurità si fece la luce. Tokusan poté abbandonare il suo spirito complicato, il suo attaccamento alla sua immaginazione. Realizzò completamente il risveglio.
Il punto di vista di zazen è la luce che brilla nell’oscurità. Non bisogna cercare di far somigliare la realtà alla nostra immaginazione, ma accettare di penetrare l’ignoto, entrare nella Via che non può essere tracciata, né immaginata in anticipo.
Sabato 27 maggio 1995, kusen delle 7:00
Conferite concentrazione alla postura. Se ponete molta attenzione ed energia nella vostra postura, la postura stessa diventa postura del risveglio. Spingete il cielo con il capo, premete fortemente il suolo con le ginocchia, estendete la colonna vertebrale, rilassate le tensioni.
Il Maestro Deshimaru diceva spesso: “La postura stessa di zazen è Buddha”. Quando praticate zazen ponete tutta la vostra energia nella postura dimenticando la vostra coscienza personale. Dimenticando voi stessi nella postura diventate Buddha. Significa realizzare uno spirito senza impurità. "Impurità" non ha nulla a che vedere con la pulizia o la sporcizia nel senso ordinario del termine. "Essere senza impurità" significa non creare opposizioni tra sé e la pratica, divenire lo zazen stesso, essere assorbiti da zazen. A quel punto non esistono nemmeno più le separazioni tra sé e Dio o Buddha, poiché si diviene completamente ricettivi, ci si può armonizzare naturalmente con l’ordine cosmico, non si creano più barriere tra sé e l’universo. Interno ed esterno diventano una cosa sola, in particolare quando ci si concentra sulla respirazione. Il Maestro Dōgen diceva: “Essere senza impurità non significa che cerchiamo volontariamente di eliminare ogni intenzione, ogni discriminazione. Questo non significa che si cerchi di diventare senza impurità. Essere senza impurità non può essere voluto o ricercato coscientemente”. Significa affidarsi a zazen, poiché zazen stesso è senza impurità.
"Impurità" ha dunque più il senso di attaccamento, in primo luogo a tutti gli oggetti. Zazen non consiste nell’isolarsi, nel rinchiudersi rispetto al mondo. Percepiamo i suoni, la respirazione di qualcuno che si trova a una certa distanza. Percepiamo fortemente gli odori. Sentiamo esattamente la condizione del nostro corpo, dei suoi muscoli, dei suoi organi molto più distintamente che nella vita quotidiana. Possiamo sentire la respirazione, ma non ci soffermiamo su alcun oggetto di percezione. Non ci attacchiamo nemmeno agli odori, né ci soffermiamo sulle sensazioni fisiche, sui pensieri, soprattutto abbandoniamo ogni intenzione cosciente. Non cerchiamo neppure di essere senza intenzioni, ci contentiamo di non seguire le nostre intenzioni, respirando semplicemente e lasciando passare. Se durante zazen siete in sanran, assorbiti dai vostri pensieri, se cercate di bloccarli, la vostra agitazione aumenterà, ma se non fate nulla, allora si calmeranno da soli. Di solito si considerano i bonno, gli attaccamenti che sorgono durante zazen come dei visitatori, polvere sopra uno specchio, visitatori venuti dall’esterno. A quel punto, è molto difficile eliminarli, perché ne giungono sempre di nuovi. Non si finisce mai. Se comprendiamo invece che i nostri bonno non sono visitatori venuti da fuori, cose aventi una reale esistenza, ma semplicemente la forma che il nostro spirito assume, come un’onda che si forma sulla superficie dell’oceano, allora possiamo capire che i bonno non sono separati dal nostro spirito. Non sono i bonno che devono essere cacciati, ma dobbiamo tornare allo spirito vasto. A quel punto le onde si placano da sole. Ciò significa concentrarci veramente sulla radice del nostro spirito. Possiamo così vedere che le nostre illusioni non hanno esistenza propria, autonoma. Siamo solo noi a fabbricarle, istante dopo istante. Dal momento che le abbiamo fabbricate, è possibile far smettere queste costruzioni smettendo di fare alcunché, non facendo nulla.
Sabato 27 maggio 1995, kusen delle 11:00
Durante zazen dovete sentire una forte energia nella nuca e nelle reni. L’energia a livello delle reni vi aiuta a concentrarvi sulla respirazione e conferisce stabilità alla postura. L’energia a livello della nuca stimola la vigilanza, vi consente di avere uno spirito chiaro, senza troppi pensieri. Lasciate passare i pensieri. L’autentica saggezza del Buddha, la saggezza che nasce da zazen, non è né una comprensione intellettuale, né un’accumulazione di conoscenze, di sapere. E’ solo essere senza sporcizia, senza impurità, avere lo spirito come un vasto specchio, che riflette tutto quanto è, dall’interno come dall’esterno, senza creare separazioni. Il Maestro Dōgen diceva: “Essere senza impurità significa, ad esempio, incontrare qualcuno e non iniziare subito a pensare a chi possa assomigliare”, non iniziare a giudicare, ma vedere semplicemente la persona stessa così come si presenta, senza apporre subito delle etichette. Significa poter incontrare tutti i fenomeni della vita con uno spirito fresco e nuovo. Certo, non possiamo prescindere dall’esperienza passata, ma, per quanto è possibile, ricondurre sempre l’esperienza passata all’incontro del "qui e ora". Significa essere ricettivi alla novità e al cambiamento, alla possibilità di essere creativi, di non ripetere gli stessi pensieri, le stesse azioni in funzione dell’esperienza passata.
Ogni zazen permette di rimettere in gioco ciò che abbiamo ereditato dalla nostra storia. Sensei diceva: “Lasciar cadere il corpo e la mente significa spogliarsi di tutti i nostri condizionamenti, come se morissimo ora e rinascessimo l’istante dopo, ogni volta rinnovati”.
Essere senza impurità significa dunque togliere gli occhiali colorati del nostro vecchio karma, della nostra educazione, essere capaci di guardare le cose con occhi nuovi. In ultima analisi il nostro ego non è altro che l’accumulazione delle nostre esperienze passate con le quali ci identifichiamo, alle quali ci attacchiamo, che turbano la nostra visione. Cambiare punto di vista è come ascendere la china di una montagna, avendone una visione unilaterale, perché la vediamo davanti a noi, ma quando giungiamo sulla sommità, l’orizzonte si apre a 360°. Zazen significa realizzare questo sguardo che può vedere in tutte le direzioni, senza concentrarsi su un punto di vista particolare, senza seguire alcunché. Significa smettere di guardare attraverso la griglia dei nostri pregiudizi, che finisce col farci vivere in un mondo limitato, il mondo delle nostre costruzioni mentali. Finché ci identifichiamo col nostro piccolo ego, tutto quanto ci circonda diventa una minaccia, il rischio di perdere qualcosa, di non ottenere ciò che volevamo, un oggetto che ci potesse soddisfare. Non è sorprendente che il mondo nel quale viviamo sia così denso di conflitti. Se si manifesta un conflitto, chiediamoci qual è l’ego che si manifesta. I conflitti sono come le malattie, fanno parte dell’esistenza, del mondo nel quale esiste l’ego, in una vita limitata. Ciò che è importante è comprendere come evolvere a partire dalle nostre crisi, come non ripetere nuovamente gli stessi errori.
Essere senza impurità significa essere ricettivi all’insegnamento dei fenomeni, non solo dei kusen, dei sūtra, ma della vita reale, della vera vita. Il Maestro Dōgen diceva: “Essere senza impurità significa che quando guardiamo dei fiori o la luna, non desideriamo che abbiano più colori o più luminosità di quanti ne hanno”. Quando guardiamo un fiore, significa vedere il fiore così com’è, vedere la luna come é. Se vedere questo fiore o la luna ci procura delle emozioni, dobbiamo vedere queste emozioni così come sono. Quando Buddha ha voluto esprimere tutto ciò, ha semplicemente preso un fiore e l’ha fatto ruotare tra le dita. Mahākāśhyapa ha sorriso e il Dharma è stato trasmesso. Molte persone hanno fatto congetture su questa trasmissione per cercare di afferrare qualcosa, mentre in realtà il gesto del Buddha è stato semplicemente quello di mostrare il fiore così com’è, al di là di ogni sorta di complicazioni.
Dobbiamo ritrovare questa semplicità della vita così com’è, senza aggiungervi tutte le complicazioni del nostro cervello. Allo stesso modo ci concentriamo sulla postura di zazen senza aggiungere nulla alla postura, alla respirazione così come sono. E'’ qualcosa che non possiamo afferrare, del tutto senza sostanza, e al tempo stesso totalmente così com’è, così come appare ora, ma l’istante seguente appare una cosa diversa. L’importante è vedere bene questo processo, altrimenti vorremo sempre tenere il fiore senza cambiamento. Il fiore è bello proprio perché è effimero, perché è il colore della primavera, perché esprime l’essenza della nostra vita.
Abbiate ancora qualche minuto di pazienza, concentrandovi bene sull’espirazione, rilassatevi.
Sabato 27 maggio 1995, kusen delle 16:30
Durante zazen, quando siamo totalmente concentrati sulla postura, respiriamo con calma, lasciando passare i pensieri. Il nostro corpo umano ordinario, con i suoi limiti, i suoi dolori, talvolta le sue malattie, diventa completamente il Corpo del Dharma, il corpo nel quale si realizzano tutti i Buddha. Se vogliamo analizzare il Corpo del Dharma facendo una teologia dei Tre Corpi del Buddha, come nella teologia cristiana, attaccandoci a nuovi concetti a proposito dei differenti corpi del Buddha - il dharma kaya, il Corpo del Dharma, è diverso dal nirmana kaya, il Corpo della Manifestazione in cui il Buddha s’incarna per aiutare gli esseri, ed è ancora diverso dal terzo corpo, il sambhoga kaya, il Corpo della Beatitudine attraverso la pratica -, se affrontiamo questo genere di considerazioni, il Corpo del Dharma stesso diventa un ostacolo, una fonte di complicazioni. E’ importante che l’esperienza di zazen non si trasformi mai in una concezione, ma che, al contrario, rimanga vicina alla vita, all’esperienza di ogni istante. In zazen sperimentiamo che il nostro corpo, in ultima analisi, non ha sostanza fissa, poiché è totalmente interdipendente con tutto l’universo.
Se percepiamo il nostro corpo in questo modo, allora la radice di tutti i nostri attaccamenti, di tutti gli ostacoli che incontriamo, può essere recisa.
Questo non vuol dire che tutti gli ostacoli spariranno improvvisamente, ma che, anche se incontreremo un ostacolo, potremo rimanere liberi, poiché tutto ciò che incontriamo e sperimentiamo è riunito nel corpo che pratica zazen e diventa la sostanza stessa di zazen. Invece di lottare contro gli ostacoli, li includiamo nella pratica. Se, ad esempio, abbiamo delle ossessioni, delle paure, facciamo zazen immergendoci completamente nella pratica. Poiché in zazen non è possibile fare nulla, non è possibile agire col proprio corpo e allora si lascia passare naturalmente. Tutto quanto sorge durante zazen appare nella coscienza di zazen per un tempo più o meno lungo, poi passa. Possiamo così vedere che quanto ci inquieta, gli ostacoli della nostra vita non hanno realmente sostanza, che si tratta di nostre costruzioni. A quel punto è possibile sdrammatizzare ciò che diventa causa di sofferenza nella nostra esistenza. Non sopprimiamo i bonno, ma non li seguiamo neppure, non spendiamo la nostra energia né per combatterli, né per realizzarli. Manteniamo costante questa energia e i bonno perdono la loro importanza. La pratica di zazen diventa più forte e trasforma tutto.
Attraverso zazen possiamo sentire che il nostro corpo è completamente in unità con tutto l’universo, con ciò che anima la nostra vita e le conferisce un senso concreto ad ogni istante. Ci sentiamo solidali con tutti gli esseri viventi, abbiamo voglia di rispettarli, di amarli, di aiutarli. In questo modo l’energia resa disponibile attraverso zazen può essere canalizzata per aiutare gli altri con un atteggiamento da bodhisattvā.
Tutte le pratiche del bodhisattvā che talvolta crediamo destinate a realizzare se stessi sono in realtà votate ad aiutare gli altri. Ad esempio la pazienza: certo, la pazienza si apprende essenzialmente durante zazen, quando non dobbiamo muoverci, abbiamo male alle ginocchia e aspettiamo la campana. La pazienza sviluppata durante zazen è lo strumento più utile per aiutare gli altri. Occorre molta pazienza per aiutare gli altri, per aiutare se stessi, per andare al di là di sé, al di là degli ostacoli. E’ la stessa cosa per i precetti, il fuse (la generosità), l’energia, la concentrazione e la saggezza.
Poco fa qualcuno ha posto una domanda a proposito dell’essere monaco. Essere monaco significa essere totalmente soli, smettere di perseguire ogni sorta di oggetti, di porsi le domande abituali, e al tempo stesso comprendere che il nostro corpo è tutto l’universo, e condurre una vita senza separazioni. A quel punto, non esiste alcun luogo che sia un cattivo luogo, né alcuna circostanza che sia una cattiva circostanza, poiché "ovunque" è il luogo in cui possiamo praticare la Via, "ovunque" è il luogo in cui si realizza il Corpo del Buddha.
Poiché in questo momento il vostro corpo di Buddha è molto dolorante, faremo un mondō.
Sabato 27 maggio 1995, mondō
- Nello Zen si dice spesso che si pratica per l’insieme di tutte le esistenze. Come capire se si è nel giusto?
Quando si pratica per sé si pratica per l’ordine cosmico. E’ un punto molto importante. Non si possono aiutare gli altri senza ritornare alla condizione normale. Il voto del bodhisattvā non è fuggire se stessi. Le persone hanno più bisogno di esempi che di consigli. Praticare nel sangha significa vivere una pratica che influenza inconsciamente. Possiamo aiutare gli altri in vari modi (per esempio, come terapista, con l'elemosina, ecc..), ma è necessario ritrovare la radice della propria vita, bisogna aiutare le persone ad aiutarsi da sole, aiutarle a entrare nella Via. L’essenziale è che le persone avvertano in voi la dimensione di zazen.
Dov’è più utile la vostra energia? Che cos’ho di più prezioso e di più raro da offrire? Condividere zazen. Bisogna utilizzare la propria esperienza, la propria vita, le proprie competenze, rispondere a ciò che ci ispira zazen. A partire da zazen si può creare e scegliere. Sensei diceva che il primo precetto è quello di "temere" l’ordine cosmico e poi a volte diceva: “Siate felici”. Occorre avere il senso della responsabilità: i vostri errori creano la sofferenza, ma anche diventare felici è ciò che può aiutare meglio gli altri.
Per sapere se si è in errore bisogna osservare gli effetti. Se si è in errore, gli effetti sono negativi.
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- Pensando al dolore, riesci ad attenuarlo?
- No. Nel cristianesimo si parla di dolore per sublimarlo, nel buddhismo non si parla del dolore.
- Buddha ha parlato di tutto ciò nei sūtra, ma non parla di sofferenza in zazen. Egli ha vissuto sei anni facendo esperienze di mortificazione, ma queste lo portavano proprio alla morte e non al risveglio. Lo zazen praticato dal Buddha non era uno zazen legato alla mortificazione, perché per Buddha era la Via del Mezzo. E’ una postura buona da punto di vista fisiologico. I dolori che proviamo quando pratichiamo sono determinati dalla mancanza di abitudine, dal nostro stress. Il dolore mostra che non viviamo nella condizione normale. Tuttavia, durante zazen, possiamo imparare ad affrontare il dolore, a confrontarci con esso: pazienza. La giusta pratica lascia il dolore al suo posto, consente di ridurre il dolore alla sua giusta dimensione. E’ una buona saggezza. Nella vita l’ego rifiuta gli ostacoli. In zazen il dolore serve a sdrammatizzare. Occorre rilassarsi durante le sesshin, non irrigidirsi. La prova di una sesshin sarà molto fruttuosa. Con l’abitudine alle sesshin questo dolore passa.
- E’ positivo sapere tutto ciò.
- Non siete solo sofferenza. E’ importante appoggiarsi anche al versante positivo.
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- Nell’insegnamento si parla di "esseri sensibili"?
- Col termine "esseri sensibili" s’intende in genere "esseri viventi"; con "esseri insensibili" le montagne, i fiumi, ecc. Tra gli esseri viventi si comprendono gli esseri umani e gli animali, opponendo loro gli esseri inanimati. Ma per il Buddha tutti gli esseri hanno la natura del Buddha, non solo gli esseri sensibili, ma tutto il cosmo. Nella visione del Buddha non c’è più alcuna differenza. Il cosmo intero è una sola realtà.
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- Come capire e aderire al rituale? A cosa serve?
- Per prima cosa non siete obbligati a seguire il rituale se per voi è un ostacolo, se avete l’impressione che si tratti di qualcosa di aggiunto. Se si è cristiani si ha l’impressione di tradire il proprio rituale, se si è rifiutato il rituale cristiano si tende a rifiutare anche questo. In realtà si tratta dell’espressione completa di zazen. Zazen non ha bisogno di cerimonie. Lo si pratica liberamente, come una transizione tra zazen e la vita quotidiana.
La stessa cosa vale per il gesto di gasshō, che rappresenta l’essenza di zazen. La nostra mano sinistra rappresenta Dio, la spiritualità, in collegamento col nostro cervello destro, l’unità. La nostra mano destra è il nostro ego, in rapporto col cervello sinistro, la tecnica. In gasshō sono riuniti i due aspetti. Zazen riunisce queste due dimensioni che si esprimono in gasshō.
Sanpai: abbandonare, prosternarsi. Significa mettere a contatto della terra il cervello frontale che calcola sempre, che si sente fiero, ritornando all’unità con il cosmo. I discepoli del Buddha mettevano le loro mani davanti ai piedi del Buddha. Se siamo unità con sanpai , questo gesto prolunga zazen.
Bruciare l’incenso: significa donare, è un fuse. In un dojo il primo gesto consiste nell’offrire dell’incenso.
I sūtra: tutto ciò che viene cantato esprime lo spirito di zazen, il soffio, l’espirazione. Approfondiamo la nostra respirazione col ventre, ascoltiamo gli altri, ci armonizziamo con essi. E’ un esercizio di armonizzazione con gli altri, perché anche i gesti devono essere in sintonia con gli altri.
Il rituale è un buon esercizio per rendere l’ego più malleabile. Possiamo sopprimere la cerimonia, ma si tratta anche di un seguito di zazen, l’esattezza del gesto, qui ed ora. Tutto ciò prolunga zazen. Possiamo fare in modo che tutta la nostra vita sia una cerimonia: bellezza dei gesti, dei canti. La cerimonia è una eccellente occasione di pratica. E’ un peccato smettere di fare zazen, fermarsi di fronte agli ostacoli, come ad esempio la cerimonia, per ignoranza. I responsabili dei dojo devono spiegare ai principianti il senso profondo della cerimonia.
La cerimonia è connaturata ai geni umani. Uno studioso ha studiato l’evoluzione del fenomeno religioso, riscontrando che ovunque sia stato soppresso lo spirito religioso, esso è ricomparso sotto un altro aspetto. Distinguiamo gli esseri umani dai primati per le tracce di cerimonie rinvenute intorno allo scheletro. Non bisogna rifiutare troppo affrettatamente la cerimonia.
Domenica 28 maggio 1995, kusen delle 7:00
Ritornate istante dopo istante alla concentrazione sulla postura. Non lasciate che il vostro spirito sfugga alla postura di zazen. Siate attenti alla vostra respirazione, non la forzate, ma osservatela istante dopo istante. La pratica di zazen consiste nell’apprendere profondamente a vivere ogni istante col proprio corpo, la propria respirazione e il proprio spirito totalmente impegnati nell’azione presente. Il Buddha ha compreso il problema della vita e della morte in questo modo.
Nell’insegnamento di zazen si dice: esiste la vita nella morte e la morte nella vita, ma al tempo stesso la morte è completamente la morte, la vita totalmente la vita. E’ la nostra esistenza che è così, non si tratta di una concezione del nostro spirito. Tutto lo sforzo del Buddha nella sua ricerca della Via consisteva nel risolvere il problema della sofferenza legato all’esistenza della morte. La nostra esistenza inizia con una nascita ed è limitata dalla morte; al tempo stesso aspiriamo a una vita illimitata, al di là della nascita e della morte. E’ la contraddizione dell’essere umano che nasce in questo mondo di vita e morte. Esiste la morte nella vita, il che significa che spesso la vita non è vissuta totalmente. Esiste la vita nella quale si passa il proprio tempo ad aspettare qualcosa di diverso da ciò che è qui ed ora. Esiste la vita nella quale si trascorre il proprio tempo a fuggire la realtà dell’istante presente per inseguire i propri fantasmi o gli scopi proposti dalla società. La vita condizionata dall’economia, dai valori materialistici è una vita che assomiglia a una morte. Esiste poi la vita nella quale si passa accanto alla vera vita, una vita nella quale non è consentito spazio alla dimensione del Buddha, una vita nella quale la metà di noi stessi non ha il diritto di esistere. Praticare zazen significa offrire a questa metà di noi stessi una possibilità di nascere autenticamente.
L’espressione "la morte nella vita" è l’esperienza costante che tutto ciò che appare scompare nel tempo di uno zazen. Quante cose sono apparse e scomparse? Istante dopo istante, in zazen, possiamo fare l’esperienza dell’apparizione e della scomparsa della vita e della morte. Diventiamo intimi con mujō, l’impermanenza. Occorre armonizzarsi con questo movimento, con uno spirito fluido, armonizzarsi con l’ordine cosmico e realizzare mushotoku, imparare ad abbandonare la presa istante dopo istante. Abbandonare le nostre ossessioni significa realizzare shin mu ke ge, lo spirito senza ostacoli. Se sentiamo profondamente che il nostro ego non può essere afferrato, la nostra esistenza può diventare più leggera, più libera. Non c’è bisogno di combattere senza sosta per rafforzare questa finzione, né di innalzare baluardi in sé e intorno a sé, per difendersi dall’impermanenza, ma accettarla e servirsene come di uno stimolo per la pratica. Come utilizzare nel modo migliore l’istante presente? In quel momento "la morte nella vita" non diventa un ostacolo, ma stimola e aiuta a realizzare la dimensione della nostra vita senza perdere tempo. Nella mitologia buddhista esiste un paese in cui gli esseri vivono molto a lungo: in quel paese non si è risvegliato nessun essere, perché tutti hanno dimenticato l’impermanenza e la morte.
Esiste anche "la vita nella morte". Nello Zen si rappresenta questo concetto con l’immagine dell’albero morto che rifiorisce. La morte è l’abbandono l’ego, lasciar cadere i propri attaccamenti, rinascere a una vita nuova, ispirata da zazen e guidata dallo spirito del Buddha. In questa vita ci si concentra sulla pratica, dalle profondità del nostro corpo e del nostro spirito, ed è possibile superare l’opposizione della vita e della morte. Quando diventiamo unità con l’istante, esiste solo la vita realizzata totalmente, questa vita che è unica ed assoluta. La primavera non diventa estate. Esiste totalmente così com’è. E’ quanto ci insegna la camminata di kin hin. Il passo della gamba destra non diventa quello della gamba sinistra. Ogni passo è indipendente, l’inspirazione di questo momento non è la successiva. Se vi concentrate su ogni passo di kin hin, su ogni inspirazione, potete avere un’anticipazione della vita eterna. Non c’è bisogno di pensare alla durata di zazen, potete dimenticare tutto, pensare solo alla vostra respirazione.
Domenica 28 maggio 1995, kusen delle 11:00
Un antico Buddha aveva detto: “L’intero universo è l’autentico corpo dell’uomo. L’intero universo è la porta della liberazione. L’intero universo è l’occhio del Buddha Vairocana. L’intero universo è il Corpo del Dharma, del sé”.
Praticare zazen, venire a una sesshin, significa dare a questo autentico corpo la possibilità di realizzarsi. Il nostro autentico corpo non è separato da tutto l’universo. Tutti gli elementi che lo costituiscono provengono dall’universo intero. Al momento del nostro concepimento due cellule si sono incontrate, sono state nutrite, hanno ricevuto energia, si sono moltiplicate. Un essere umano è apparso e abbiamo preso a prestito dall’universo intero tutto quanto ci costituisce: nulla ci appartiene, tutto ci è stato prestato per un momento. Se realizziamo questo concetto anche per poco, lo spirito limitato dell’ego può allentare il suo dominio sul nostro modo di vivere. L’intero universo diventa il nostro corpo autentico, il nostro corpo è al di là di ogni dimensione, del grande, del piccolo.
Possiamo realizzare in zazen questo spirito che non misura: è quanto chiamiamo la coscienza hishiryō, che non paragona, che non calcola. Armonizzandoci con lo spirito di zazen possiamo finalmente oltrepassare la porta della liberazione, diventando intimi col nostro vero spirito, che non giudica, non paragona, non calcola, non crea opposizioni. Molti diventano infelici perché passano il tempo a giudicarsi, a paragonarsi agli altri, a un ideale precostituito. Oltrepassare la porta della libertà significa smettere di misurare, di giudicare, ma vedere solamente ciò che è, renderci conto ad ogni istante che non siamo prigionieri, che siamo noi stessi a porre, là dove si trovano, i limiti che riscontriamo.
Quando questo antico Buddha parla dell’universo intero non parla delle miriadi di galassie, non parla di una quantità dalle dimensioni fisiche, ma parla dell’esperienza stessa di zazen, di uno zazen cosmico, uno zazen nel quale non siamo più diretti dai nostri pensieri personali. E’ molto difficile oltrepassare la porta della liberazione. Se ci accontentiamo semplicemente di praticare zazen senza oggetto, senza pensare all’universo intero e alla liberazione, allora la porta è superata inconsciamente e naturalmente. In realtà non esiste nemmeno la porta, poiché tutto il mondo è libero originariamente. Questo antico Buddha diceva: “L’intero universo è come l’occhio del Buddha Vairocana”. Questo significa che lo spirito di zazen risplende in tutte le direzioni , che questa visione di zazen non crea dualità, non assomiglia all’occhio umano ordinario che crea ovunque oggetti. Al contrario, è l’occhio che permette di comunicare con tutto l’universo.
Questo antico Buddha diceva che l’universo intero è il Corpo del Dharma, il nostro autentico Sé. Realizzare questo autentico Sé è il desiderio costante di tutti gli esseri umani. Finché non lo si realizza non si può essere in pace, ma ci si dirige in molteplici direzioni ignorando il nostro vero bisogno. Il ruolo dei Buddha che appaiono in questo mondo è proprio di consentire agli esseri umani di vedere questo bisogno e di poterlo realizzare. Spesso, durante la sesshin, nel corso della pausa per il caffè, alcuni hanno detto: “Talvolta sento il bisogno di smettere zazen, ma qualcosa mi spinge a ritornare nonostante le difficoltà”. Ciò che ci spinge è quella forza che chiamiamo bodhaishin, lo spirito del Buddha che ha bisogno di realizzarsi, che lo si sappia o meno.
Dal momento che avete avuto la fortuna di incontrare la Via, che permette di realizzare "la propria Via", il proprio autentico spirito del Buddha, nonostante i dubbi che talvolta possono apparire, non lasciate sfuggire questa fortuna, non dubitate, continuate zazen.
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