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L'associazione zen bodai dojo è membro dell' UBI, Unione Buddhista Italiana

 
Che cos’è un kusen?

Ku significa bocca, sen, insegnamento. Il kusen è l’insegnamento orale dato dal maestro o dal monaco anziano durante la meditazione.
Kusen
 
15/23 agosto 2000
Campo estivo della Gendronnière
Sessione diretta dal Maestro Roland Yuno Rech

Shôbôgenzô Bukkyô


Martedì 15 agosto 2000, kusen delle 8:00

A partire da questo momento smettete di dare il kyosaku. Il tempo nel quale viene dato il kyosaku deve essere breve. Coloro che hanno bisogno di riceverlo devono chiederlo rapidamente. Per quanto è possibile concentratevi sulla postura, sulla respirazione, in modo da non aver bisogno di chiederlo. Si chiede l'aiuto del kyosaku solo quando non si riesce ad uscire dallo stato di sanran o di kontin. Zazen significa concentrarsi attraverso noi stessi, non abbiamo bisogno degli altri. Dopo kin hin riprendete rapidamente la postura. Di solito, dopo il suono della campana, non si deve più lasciare il dojo o il gaïtan, salvo se siamo troppo malati. Dal momento in cui comincia zazen, ci si concentra totalmente e si dimentica tutto il resto. Sin dall'inizio di zazen concentratevi sui punti principali della postura, trovate la giusta inclinazione del bacino in avanti, sedendovi come se l'ano non dovesse toccare lo zafu. In questo modo l'ano è inclinato in avanti e le ginocchia poggiano saldamente al suolo. Il ventre è rilassato, il peso del corpo preme sullo zafu, in particolare sul punto al centro del perineo, che è una fonte di energia. Il peso del corpo si distribuisce equamente tra le ginocchia, dobbiamo sentirci ben radicati alla postura, stabili, e tutta l'energia è spinta verso la terra. Le reni non devono essere troppo curvate, per consentire una respirazione fluida. Se avete difficoltà ad espirare profondamente, concentratevi e rilassate la vostra postura, in particolare la zona delle reni. In genere è opportuno concentrarsi ad estendere dolcemente la colonna vertebrale, rilassando tutte le pressioni della schiena. Rilassate le spalle, estendete la nuca, spingete il cielo con la sommità del capo e rientrate il mento.

Dobbiamo sentire una forte energia nelle reni e a livello della nuca. L'energia nelle reni permette alla respirazione di discendere completamente, respirando bene sino al fondo, inspirando ed espirando profondamente e accompagnando l'espirazione con una spinta della massa addominale verso il basso. Quando si espira ci si concentra solo sull'espirazione, dimenticando tutto il resto e si è in totale unità con l'espirazione, un corpo e uno spirito che stanno espirando. Durante l'espirazione si abbandona tutto. Alla fine dell'espirazione si ritorna al punto zero del non-pensiero. Non si conserva nulla. In questo modo non si ristagna su nulla ed è possibile essere in unità con l'istante presente.

Tra tutti i principianti che per la prima volta partecipano a una sesshin qui alla Gendronnière alcuni sono preoccupati per la lunghezza di zazen, per la lunghezza della sessione. Se ci concentriamo semplicemente su ogni istante, la sessione non è né lunga né corta, gli zazen non sono né lunghi né corti, esiste solo questo istante della pratica e tutto il resto è dimenticato. Anche se siamo numerosi, in ultima analisi siamo completamente soli. E' importante ritornare a questa solitudine, pur rimanendo attenti all'interdipendenza che creiamo gli uni con gli altri, attenti a rispettare chiunque, a non disturbare gli altri col nostro egoismo. In questo senso l'essere numerosi è un'ulteriore occasione per abbandonare l'ego. Se ognuno di noi abbandona un poco il proprio egoismo, la vita diventa facile, leggera, mentre in caso contrario può farsi veramente insopportabile. Per favore, fate attenzione a questo aspetto, perché è una pratica eccellente. Dobbiamo concentrarci su ciò che dobbiamo fare ad ogni istante. Se ciascuno di noi riesce anche brevemente ad abbandonare le proprie coagulazioni mentali, ritrovando uno spirito fluido, allora anche la vita in comune diventa del tutto naturale. Non dormite! Coloro che tendono a addormentarsi raddrizzino la testa, rientrino il mento e respirino profondamente. L'energia a livello della nuca consente una forte vigilanza, stimolando il cervello profondo. Il Maestro Deshimaru riteneva che la stimolazione del cervello profondo attraverso la concentrazione sulla postura fosse uno degli apporti fondamentali dello zen nell'ambito dell'attuale crisi dell'umanità. Occorre apprendere nuovamente ad essere presenti alla vita di ogni istante, senza perdersi nei propri pensieri, nei propri sogni, ancor meno nella sonnolenza e nel torpore. Durante questa sessione fate attenzione a questo aspetto, per favore.

Martedì 15 agosto 2000, kusen delle 15:30

Non date il kyosaku solo a coloro che lo richiedono, ma anche a coloro che ne hanno bisogno, che si addormentano o dimenticano di chiederlo. Quando oscillate all'inizio di zazen, fatelo completamente, profondamente, non a metà, non si tratta di un rituale, ma piuttosto di trovare il centro di gravità della postura, ammorbidendo l'articolazione della schiena con il bacino. Al tempo stesso tutto questo serve a scuotere la sonnolenza, a risvegliarsi. E' importante essere completamente in unità con i gesti nel dojo. Mettiamo i pollici all'interno dei pugni, i pugni sulle ginocchia, i palmi delle mani rivolti verso il soffitto, e la pressione delle mani sulle ginocchia impedisce che si sollevino. Si oscilla su un piano verticale senza ondulazioni né della schiena né della colonna vertebrale. Quando si fa gasshô si mettono le mani unite all'altezza del viso, gli avambracci orizzontali, e in quel momento si è totalmente in unità con gasshô. Poi si inspira ed espira profondamente due o tre volte: quando si inspira si è in totale unità con l'inspirazione, quando si espira si è in totale unità con l'espirazione. E' ciò che viene definito concentrarsi: porre tutta la propria attenzione ed energia in ogni gesto, in ogni postura, in ogni pratica, divenire totalmente unità, senza fare le cose a metà, senza restare in parte qui e in parte altrove. Questo significherebbe vivere a metà, mentre noi dobbiamo invece penetrare completamente la realtà della nostra vita ad ogni istante. Spesso non siamo soddisfatti della nostra vita e nutriamo ogni sorta di desideri, solo perché non siamo capaci di vivere pienamente ogni momento e aspettiamo sempre qualcosa d'altro. Ma anche questa nuova cosa, se la incontriamo, non sappiamo realizzarla completamente, intimamente. Delusi, ripartiamo all'incessan-te ricerca di qualcosa di nuovo. Praticare shikantaza significa concentrarsi completamente sulla postura seduta quando siamo seduti, realizzando la condizione per la quale non abbiamo bisogno di nulla. Non si tratta di recidere i desideri, ma la pratica è completa in se stessa. Praticare in questo modo rappresenta il cuore della sesshin. Tutto diventa la pratica, quindi non c'è più nulla da praticare.

Mercoledì 16 agosto 2000, kusen delle 6:30

Coloro che fanno il giro non dimentichino di spegnere le luci nel castello e nei sanitari. Più in generale, è importante che ognuno di noi faccia attenzione. Quando i kyosakumen fanno il giro delle costruzioni, non deve intercorrere troppo tempo. La vostra presenza è necessaria qui nel dojo. Uno non è ancora ritornato.

In zazen concentratevi sulla postura, tendete le reni, estendete la nuca, rientrate il mento. Lo sguardo è posato davanti a sé verso il suolo. In realtà, tutta la nostra attenzione è rivolta verso l'interno, attenzione al tono del nostro corpo, né troppo teso, né troppo rilassato, concentrato sulla respirazione. Si tratta soprattutto di andare sino al fondo di ogni espirazione, senza trattenere nulla, lasciando che l'inspirazione si faccia naturalmente, rimanendo tuttavia attenti alla postura, alla respirazione, senza lasciare che lo spirito ristagni sui pensieri, senza attaccarci ad essi, ma lasciandoli passare. Attraversiamo tutti gli stati senza dimorare su nulla, andando costantemente al di là del desiderio di fermarci, di appoggiarci a qualcosa. Lo spirito che non dimora su nulla, realizzato in zazen, è lo spirito del Buddha, lo spirito completamente libero, che non si identifica con nulla, che non si lascia bloccare da nulla.

Nella scuola Zen, nella tradizione Zen, si insegna spesso che lo spirito del Buddha è al di là degli insegnamenti. Gli insegnamenti del Buddha, che sono stati trasmessi di generazione in generazione, sono poi divenuti i sutra, divisi in dodici tipi di scritture, con differenti forme, che hanno dato origine ai tre veicoli principali:

il veicolo detto degli Uditori, concentrati sulle quattro nobili verità;

il veicolo detto dei Pratyeka Buddha , concentrato più particolarmente sulle dodici causeinterdipendenti che condizionano la ruota della Via, la ruota della trasmigrazione;

il veicolo dei Bodhisattva, concentrato sulla pratica delle paramita.

Nella scuola Zen, in particolare nella scuola Rinzaï, si è spesso ripetuto che lo spirito del Buddha è al di là di tutti gli insegnamenti, di questi veicoli. Tuttavia nella nostra scuola, in particolare a partire dall'insegnamento del Maestro Nyojo e del suo discepolo, il Maestro Dogen, questi insegnamenti sono considerati l'espressione del risveglio del Buddha. Il loro senso profondo è aiutare ogni essere sensibile a realizzare il risveglio, non solo studiandoli, ma praticandoli profondamente. Quando si entra nel dojo e ci si siede in zazen, si torna all'origine di questi insegnamenti, diventando intimi con lo spirito del Buddha. Come possiamo, a partire da questa pratica, ritrovare l'insegnamento del Buddha, come possiamo metterlo in pratica nella nostra vita, come possiamo esserne illuminati e aiutati?

Sarà questo il tema della sesshin, a partire dallo Shôbôgenzô Bukkyô, che significa: Kyo, l'insegna-mento, del Buddha, Butsu. Nella prima frase Dogen dice: " Gli insegnamenti dei Buddha simboleggiano le parole che hanno pronunciato ". Ciò indica che non esiste separazione tra i Buddha e il loro insegnamento. Per ciò che ci riguarda, il punto essenziale dell'insegnamento è che non ci sia separazione tra la nostra parola, il nostro spirito, la nostra pratica e la nostra realizzazione. Come rendere vivo questo insegnamento, come vivere a partire da esso, senza limitarlo e ridurlo? Spesso crediamo di aver compreso qualcosa e diciamo: " Lo zen è solo questo, o quello ". Non ci accorgiamo che è come chiudere il pugno per trattenere un piccolo granello di sabbia. Il senso della nostra pratica è nell'aprire le mani, aprire lo spirito per risvegliarci alla vita illimitata, la vita del Buddha.

Rientrate il mento, non lasciate che la testa cada in avanti.

Giovedì 17 agosto 2000, kusen delle 6:30

All'inizio della seconda parte di zazen cercate di allinearvi bene, nel settore a sinistra sulla persona alla vostra sinistra, nella parte a destra sulla vostra destra, al fondo sulla destra. Allinearsi significa armonizzarsi con gli altri. In zazen si è sia completamente soli che insieme agli altri. E' importante unire queste due dimensioni di zazen: concentrarsi sulla pratica ed armonizzarsi con gli altri. Nel nostro Sangha, già da un po' di tempo, emerge, specie durante le riunioni con i responsabili dei dojo, il problema relativo all'insegnamento, al ruolo che l'insegnamento assume in rapporto alla pratica. Chi può insegnare? Che cosa insegnare? Come insegnare? Queste domande non sono nuove. Quando Bodhidharma arrivò in Cina il buddismo era diffuso già da cinque secoli e molti eruditi avevano tradotto i sutra. Si erano diffusi differenti insegnamenti, scuole diverse e regnava una certa confusione, un po' come ai giorni nostri, in cui tutti gli insegnamenti sono disponibili ai grandi magazzini, è possibile apprendere tutto nei libri e si finisce per non sapere più dov'è l'essenza. In seguito all'arrivo di Bodhidharma apparve la scuola Zen, il cui slogan era che possedeva la trasmissione dello spirito del Buddha al di là degli insegnamenti. Alcuni maestri si misero a bruciare i sutra per eliminare l'attacca-mento dei loro discepoli alle scritture. Nel giro di qualche secolo l'insegnamento dello zen si ridusse a qualche grido, a colpi di kyosaku, a koan incomprensibili. Si perdeva l'insegnamento originario del Buddha. Comprendendo in modo superficiale l'inse-gnamento del Maestro Eno, il sesto patriarca, si insegnava che era sufficiente vedere la propria natura per essere Buddha, senza bisogno di fare sesshin, di fare zazen, di aver male alle ginocchia. Contro questa impostazione reagì con forza il Maestro Nyojo e il suo discepolo Dogen scrisse a questo proposito due capitoli dello Shôbôgenzô che si chiamano entrambi Bukkyô. Si tratta di due kyô differenti: il primo indica l'insegnamento del Buddha, il secondo i sutra del Buddha. E' evidente che i due aspetti non sono separati. All'inizio del primo capitolo Bukkyô che commenterò durante questa sessione Dogen dice: " Gli insegnamenti del Buddha designano le parole che ha pronunciato ". Non esiste dunque alcuna separazione tra Buddha e gli insegnamenti e ciò che in seguito diventeranno i sutra. Tutti gli insegnamenti del Buddha hanno origine dalla sua pratica di zazen, sono stati pronunciati per illuminarci sulla Via. Dopo ogni zazen del mattino cantiamo il Dai Sai GeddaPuku, il Sutra del Kesa, nel quale viene detto " hi bu nyorai kyo ": " ora realizziamo il risveglio del Buddha ". Questo indica che l'insegna-mento non è limitato alle parole, che anche la trasmissione del kesa è la trasmissione del Dharma, dell'insegnamento del Buddha. Praticare zazen nel dojo con il kesa significa attualizzare completamente l'insegnamento del Buddha. Dogen continua: " Gli insegnamenti sono il Dharma esposto dal Buddha Shakyamuni, il cuore del suo Dharma. I Buddha e i Patriarchi appaiono e scompaiono ". Questo significa che sono unità con l'insegnamento. I Buddha e i Patriarchi siete voi, siamo noi. Nello spirito di Dogen non esiste separazione tra ciò che viene definito tradizionalmente i Buddha e i Patriarchi e coloro che praticano l'autentico zazen. Essi appaiono come un atomo o come il mondo intero, come l'intero universo. Quando pratichiamo zazen con questo piccolo corpo alto da cinque a sei piedi, completamente concentrati nella postura, abbandoniamo ogni differenza, il nostro spirito cessa di creare separazioni, non esistono più nozioni come piccolo o grande. Concentrati sul contatto dei pollici possiamo dimenticare noi stessi e diventare unità con l'intero universo.

Giovedì 17 agosto 2000, kusen delle 15:30

Durante zazen tornate costantemente alla concentrazione sulla postura, tendete le reni, la colonna vertebrale, la nuca, rientrate il mento. Non lasciatevi trascinare dai vostri pensieri. Se, nonostante la concentrazione sulla postura, i pensieri appaiono, se tendete ad attaccarvi ad essi, allora osservate il punto precedente al loro nascere. E' un modo molto concreto per tornare costantemente a ku, il punto inafferrabile dal quale hanno origine tutti i fenomeni. Dopo la campana potrete voltarvi e avrà luogo la conferenza di Olivier annunciata a mezzogiorno: " Spirito del risveglio e spirito della Via ".

Giovedì 17 agosto 2000, kusen delle 20:30

In questo dojo alcuni praticano zazen da tre giorni, altri da sei mesi, da un anno, dieci anni, altri ancora da venti o trent'anni. Coloro che praticano da poco, i principianti, hanno spesso l'impressione di incontrare difficoltà, di avere male alle ginocchia, di non riuscire a mantenere una postura corretta per un'ora, di non riuscire ad espirare profondamente. Tutte queste difficoltà sono percepite come altrettanti ostacoli alla realizzazione e ci si chiede quanto tempo sarà necessario per superarle. Pensando in questo modo svalutate completamente la vostra pratica attuale, che viene ad essere considerata come una sorta di apprendistato, di preparazione, in vista del vero zazen che potrete infine praticare più tardi, tra cinque, dieci anni.

Altri ancora praticano da molto tempo e ritengono di aver raggiunto qualcosa. Spesso, come diceva Olivier questo pomeriggio, proprio per questo motivo smettono di praticare. I principianti sentono una carenza, credendo che manchi qualcosa e disprezzano questo istante di zazen. Altri aggiungono alla pratica di questo momento tutto quanto credono di aver raggiunto, passando completamente ai margini della novità di questo istante, della sua realizzazione. Se riusciamo invece a far fronte alla pratica di questo istante così com'è, la durata della pratica non ha più alcuna importanza. L'autentica liberazione di zazen consiste nel non dipendere dalle nostre attese né da quanto riteniamo di possedere. Il Maestro Dogen diceva nello Shôbôgenzô Bukkyô: " Anche se i Buddha e i Patriarchi appaiono come un semplice istante o come un kalpa (cioè un periodo di tempo immenso), non mancano mai di realizzare la loro funzione, non vi è motivo di differenziare un Buddha di un giorno da uno di ottant'anni ". Se riteniamo che un giorno di pratica sia insufficiente, se pensiamo che questo zazen sia insufficiente, ci richiudiamo nella nostra sufficienza, non possiamo ricevere nulla dalla pratica della Via. Dobbiamo comprendere che i dolori, la difficoltà della postura, tutto ciò che riteniamo ostacoli sulla Via, sono altrettante occasioni di pratica. Ciò che crediamo una realizzazione è solo un'esperienza che deve essere abbandonata, superata da una pratica sempre nuova. In questo modo l'insegnamento del Buddha può realizzare la sua autentica virtù, il suo vero potere, che è quello di liberarci da noi stessi.


Venerdì 18 agosto 2000, kusen delle 6:30

Durante zazen lasciare passare i vostri pensieri, non intratteneteli. Concentratevi solo sull'espirazio-ne. La concentrazione sull'espirazione è simile a una brezza fresca che spazza tutte le nuvole, che smuove le idee preconcette, i pregiudizi, le opinioni, offrendoci la possibilità di vedere le cose con un occhio nuovo. Anche l'insegnamento ha la funzione di disturbare la formazione delle idee preconcette, che spesso finiscono col limitare la pratica e la realizzazione. Ad esempio, esiste nella tradizione Zen la celebre storia del Buddha e di Mahakashyapa nella quale il Buddha, dopo aver pronunciato un sermone al cospetto di una grande assemblea di discepoli, smise di parlare, prese un fiore e lo fece ruotare in silenzio tra le dita. Tutti rimasero stupiti, senza capire il suo gesto, ad eccezione di Mahakashyapa che sorrise. Il Buddha allora disse: " Possiedo l'occhio del tesoro dell'autentica legge, del vero Dharma, del puro insegnamento e ora lo trasmetto a Mahakashyapa ".

A proposito di questa narrazione Dogen afferma nel Bukkyô: " Alcuni dicono che il Buddha Shakyamuni ha trasmesso correttamente il suo spirito supremo a Mahakashyapa al di sopra e al di là di un gran numero di sutra. Questo spirito è stato trasmesso di successore in successore, nel suo lignaggio, e dunque questi insegnamenti non sono che propositi futili, superficiali, pronunciati in funzione delle credenze di ognuno, mentre solo il suo spirito è il vero, l'autentico spirito ". La trasmissione di questo spirito viene detta trasmissione esoterica, insegnamento segreto del buddismo, che non può essere uguale ai sutra, alle dodici linee di scrittura nei tre veicoli. Lo spirito sarebbe così eccellente che si potrebbe realizzare solo vedendo direttamente nell'autentica natura del Buddha.

Questo è il punto di vista classico, diventato una sorta di preconcetto nello Zen. A causa di questo preconcetto spesso molte persone, anche dopo dieci, quindici, vent'anni di zazen ignorano l'insegnamen-to del Buddha, credendo di possedere il suo autentico spirito al di là dell'insegnamento. Dogen considera questi propositi molto distanti dall'essenza del Dharma, lontani dalla libertà che si pone oltre tutti i pensieri discriminatori, poiché si attua una grande discriminazione credendo che esista una differenza tra lo spirito e l'insegnamento presso un Buddha. E aggiunge: " Coloro che pensano in questo modo non conoscono Buddha, il suo insegnamento e il suo spirito, né l'interno e l'esterno di questo insegnamento. Non hanno compreso né sentito che gli insegnamenti del Buddha non sono altro che il suo spirito ".

A proposito della storia celebre del fiore fatto ruotare tra le dita occorre precisare che il gesto non è altro che una completa attenzione alla realtà così com'è, Immo, il fiore così com'è. Il Buddha e Mahakashyapa in quell'istante condividono la stessa intenzione, lo stesso spirito, la stessa pratica, una totale attenzione al di là delle opinioni, dei pregiudizi, dei concetti. E' quanto il Buddha ha continuato ad insegnare per quarantacinque anni, in silenzio o attraverso le parole. Nel sutra Anapanasati, ad esempio, c'è la totale unità con la propria respirazione ad ogni istante, la constatazione che esiste semplicemente un corpo che respira. Non c'è ego, sostanza, ma solo una completa attenzione a tutti i fenomeni, ai pensieri, alle emozioni, agli oggetti mentali. La pratica costante di questa attenzione diviene uno specchio nel quale si manifesta e si esprime la realtà così com'è. In conclusione, il Buddha diceva: " Se praticate completamente in questo modo dieci anni, cinque anni, un anno, persino anche solo un mese o una settimana, non mancherete di realizzare il risveglio ". Non esiste alcuna differenza tra questo insegnamento del sutra e il gesto di prendere un fiore e farlo girare tra le dita, a condizione di praticare questo insegnamento con il corpo, non solo di comprenderlo intellettualmente.

Raddrizzate bene la testa, non lasciate che cada in avanti.

Venerdì 18 agosto 2000, mondo delle 16:30

- Ho l'impressione che molti responsabili, non solo qui, ma anche a Parigi, e confondano l'aiuto ai principianti con il potere personale. Anche nello zen capita di sentire "Mi hai visto col mio bel kesa?" oppure, anche qui: "Hai messo il tuo zafu qui, è il mio posto, la mia posizione..." Ho l'impressione che l'aspetto relativo alla ricerca del potere sia negato nel Sangha. Cosa ne pensi?

- Vuoi dire il fatto che sia insegnato?

- No, il fatto che esista.

- Certo che esiste, ed è per questo che il Maestro Deshimaru calligrafava sui kyosaku "maku-mozo", che significa "Non create illusioni circa la vostra capacità personale, la vostra realizzazione personale; non siate orgogliosi a causa della vostra anzianità, della vostra pratica". Certo, questo aspetto esiste. E' così sviluppato, così importante? E' compito di ognuno osservare se stesso, vedere cosa ci motiva nel momento in cui vogliamo aiutare un principiante. E' un problema in tutte le relazioni di aiuto. A partire dal momento in cui qualcuno aiuta qualcun altro, esiste il rischio di creare un potere, una dipendenza. Aiuto perché sono più forte, perché ho capito meglio. In casi limite si rivendica il rispetto in virtù della propria anzianità. Queste sono illusioni. Ognuno di noi deve prenderne coscienza, osservarle. In ogni caso, possiamo aiutare veramente gli altri solo a partire da uno spirito mushotoku, a partire da ciò che siamo. L'aiuto dei Buddha, l'aiuto dello zen, non è un aiuto ordinario. Certo, possiamo aiutare le persone a diversi livelli, ma il vero aiuto che il Buddha ha offerto agli esseri umani consiste nell'aiutarli a diventare autonomi, in altre parole a non avere più bisogno d'aiuto. E' questo l'aiuto autentico, liberare se stessi. A questo proposito è dunque necessario prendere coscienza dei limiti insiti nella nostra capacità di aiutare. In definitiva non possiamo aiutare nessuno, non abbiamo il potere di salvare gli altri, possiamo solo mostrare il cammino che permette ad ognuno di liberarsi da solo, attraverso la pratica, l'osservazione, la comprensione giusta, la concentrazione, è questo l'aiuto autentico. Esistono tuttavia illusioni relative all'eventualità di poter aiutare gli altri. Esistono in tutti i settori. Per quanto riguarda la tua domanda, credo sia importante che tu ti chieda qual è la tua posizione al proposito, invece di osservare criticamente quanto avviene.

- Sono nella stessa categoria.

- E' giusto che tu lo riconosca.

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- Nei testi si parla molto di armonia con il cosmo; mentre mi pare che non appaia molto la parola natura, voglio dire l'erba, i fiori... Non esistono forse popoli come gli Inuit, gli Indiani dell'America del nord, che sono riusciti a percepire questo rapporto pur rimanendo liberi da questo obbligo corporeo che incontriamo durante zazen?

- OK, ho capito la tua domanda. Innanzi tutto è vero che si parla spesso di armonizzarsi con l'ordine cosmico. Occorre comprendere profondamente cosa significhi questa armonia. Essa implica sicuramente una dimensione ecologica, legata al rispetto della natura, ma nell'insegnamento del Buddha non c'è solo questo aspetto, che rimanda piuttosto alle sfumature taoiste che lo zen ha assunto in Cina. Per quanto riguarda il Buddha, possiamo affermare che non parlava di armonizzarsi con l'ordine cosmico e la natura, non era la sua preoccupazione principale, che consisteva invece nel liberare gli esseri umani, aiutandoli ad affrancarsi dalle loro sofferenze. Aveva riscontrato, osservando se stesso, che ognuno soffre a causa delle proprie illusioni, per la mancata conoscenza di se stesso, e dunque per il disconoscimento dell'autentica natura della nostra esistenza. Buddha parlava del Dharma, in altre parole dell'ordine cosmico, di ciò che costituisce l'esisten-za di tutti gli esseri, del fatto che tutti gli esseri esistono attraverso l'interdipendenza, che dunque nessun essere ha un ego, una sostanza propria. Se comprendiamo questa realtà, se vediamo le cose così come sono, come dicevo questa mattina, allora questa visione ha il potere di liberarci veramente dalla radice delle nostre sofferenze, cioè dall'attaccamen-to al nostro piccolo ego, e ci aiuta ad armonizzarci con la realtà fondamentale, ciò che abbiamo in comune con tutta la natura, cioè l'impermanenza totale della nostra esistenza, il fatto che non possiamo afferrare nulla, il fatto che non esiste sostanza. L'aspetto positivo di tutto ciò è nell'essere completamente solidali con tutti gli esseri viventi, perché consapevoli che esistiamo solo attraverso la relazione. Questo è ciò che il Buddha definiva ordine cosmico, uscire dal nostro stato di illusione, vedere la realtà così com'è ed essere liberati attraverso questa comprensione. Questo va molto al di là dell'amare i fiori, rispettare gli animali. Certo implica anche questo, ma ciò che interessava il Buddha, e credo, ciò che interessa tutti noi, è come tornare alla condizione normale, come risolvere la sofferenza. Se realizziamo ciò, avremo sicuramente un atteggiamento meno aggressivo nei confronti della natura, rispettando tutti gli esseri viventi, in ogni caso è la nostra speranza. D'accordo?

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- Il Maestro Deshimaru ha chiamato questo tempio il castello della non paura. Come spieghi questa definizione?

- Innanzi tutti devo dire che la prima volta che ascoltai il Maestro Deshimaru, dieci anni prima, le prime parole che sentii erano: "Dovete avere paura" E proprio: " Dovete avere paura dell'ordine cosmico ", cioè " Dovete avere paura di andare contro l'ordine cosmico ". Questo è un punto importante da non dimenticare, perché parlava della non paura, ma non paura non significa non avere paura dei pericoli reali che facciamo correre alla vita, agli esseri, a causa delle nostre illusioni. Per quanto riguarda il castello della non paura, esso era per lui zazen, la non paura che deriva dall'essere liberati dai nostri attaccamenti egoistici. Per la maggior parte del tempo abbiamo paura, perché temiamo di non ottenere quanto desideriamo o di perdere ciò che possediamo, abbiamo paura a causa del nostro ego. Questo tipo di paura è pericoloso, provoca la violenza e la comparsa di svariate competizioni, in seguito alle quali si vuole sempre di più. Zazen è la pratica che ci aiuta a risolvere questa paura, radicando la nostra vita in una dimensione che va oltre l'ego che desidera possedere e che ha paura di perdere. Questa dimensione è mushotoku. Se siamo veramente musho-toku, non abbiamo molta paura. Anche se perdiamo la nostra posizione, anche se veniamo criticati, non è così grave, se non siamo attaccati all'immagine di sé. Se invece siamo molto attaccati all'immagine di noi stessi, ciò che definiamo ego, allora il minimo sguardo di traverso, la minima critica sarà sufficiente per sentirci feriti e per avere paura. In questo senso il castello della non paura è zazen, ma zazen praticato con lo spirito mushotoku. Il Maestro De-shimaru pensava, ed è nel 1981 che ebbe quest'idea del castello della non paura, che di fronte ai pericoli che minacciano la civiltà moderna, gli esseri umani hanno bisogno di questa non paura fondamentale, di questa fiducia nella Via che pratichiamo, che può aiutarci a risolvere le contraddizioni del nostro mondo. Questo non implica il non avere una paura giustificata degli errori. I due aspetti sono entrambi importanti. La paura ci avvisa del pericolo, è importante. I temerari sono pericolosi per sé e per gli altri.

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- Dobbiamo usare la respirazione di zazen nella vita quotidiana?

- Sì, per quanto è possibile, soprattutto nei momenti in cui sentiamo crescere lo stress, o una forte emozione, la collera, la paura. In quel momento, se ci si concentra sull'espirazione, nel giro di qualche secondo e di almeno cinque espirazioni profonde, diminuisce il livello dell'emozione e dell'ec-citazione, e possiamo affrontare la situazione in modo più calmo ed efficace. Oppure, per quanto riguarda il dolore, il Maestro Deshimaru parlava sempre di quanto fosse importante la respirazione di zazen per le donne che partoriscono. L'espirazione di zazen consente di diminuire e di far calare la soglia del dolore, in modo da essere meno sensibili al dolore. Ritengo che la respirazione zen non sia usata a sufficienza. E' vero che non è facile da adottare nei momenti di forte emozione, se non si ha l'abitudine di praticarla. Durante le sesshin, senza aspettare di essere in una situazione di grande stress, è importante tornare di tanto in tanto a questa respirazione, ad esempio quando facciamo samu e anche quando camminiamo.

- Capisco, ma facendo yoga si ricevono spiegazioni che suggeriscono il contrario.

- Non necessariamente, dipende dalle scuole di yoga, Esistono numerosi metodi di respirazione nello yoga. Penso che spesso gli insegnanti di yoga, e immagino ce ne siano anche qui, non conoscano la respirazione zen e che occorre mostrarla loro. Sperimentandola, possono rendersi conto che può essere valida anche per gli esercizi di yoga. Per molti anni ho partecipato all'inizio di settembre a una grande riunione di Yogi che si teneva a Zinal, ed ero invitato dagli insegnanti per insegnare zazen. Ogni volta mostravo la respirazione che diventava un soggetto di discussione, ma quando la provavano, la praticavano, convenivano che era molto pratica. In teoria, quando si discute, sembra bizzarro il fatto di non rientrare il ventre per espirare. Ma se si prova, ci si rende conto che è molto efficace. Certo, il buon senso parrebbe suggerire di rientrare il ventre, perché fa risalire il diaframma e si espira meglio. Quando espiriamo in zazen, non si tratta di far fuoriuscire il ventre, ma piuttosto di esercitare una pressione verticale, verso il basso. Questa respirazione tende i muscoli che mantengono le costole mobili, aiuta a chiuderle come un ombrello, favorisce l'espirazione e continuando a spingere sulla massa addominale verso il basso frena un poco la risalita del diaframma, l'ho già spiegato alla sesshin di primavera. Il diaframma che risale naturalmente con l'espirazione e la spinta verso il basso, questi due movimenti contrari, provoca la concentrazione di energia, possiamo quasi dire una condensazione di energia sotto l'ombelico, come un condensatore. (Al traduttore: "Concentrati sotto l'ombelico").

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- Nello zen, nella Via si parla di compassione. Come realizzare la compassione nella vita di tutti i giorni e non solo nei confronti delle persone del Sangha ? A volte si può essere spinti ad aiutare le persone e questo può essere pericoloso, nel senso che possiamo investire troppo. Quali sono i limiti?

- Ognuno deve sentire i propri limiti. Non dobbiamo voler aiutare in modo troppo volontaristico, non è positivo. Bisogna farlo in modo naturale, quando l'occasione si presenta, come espressione naturale del proprio modo d'essere. Voler aiutare a tutti i costi diventa un'ossessione, e non è necessariamente una buona cosa.

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- Mi chiedo se il fatto che esista un certo numero di persone che praticano zazen da più di quindici anni in Europa non abbia creato una convergenza d'intenti che confluiscono in questa direzione, e se ciò non possa accelerare l'evoluzione di zazen per i nuovi che sopraggiungono.

- Certamente. Ho notato, e con me l'hanno fatto molti anziani, che quando si insegnava zazen per la prima volta negli anni 72-75, i tre quarti delle persone non riuscivano ad assumere la postura, era molto difficile insegnare zazen all'epoca. Oggi, quando facciamo un'iniziazione, talvolta con venti persone, rimaniamo sorpresi nel vedere che la maggior parte riesce a prendere facilmente la postura, come se la sua forma fosse inconsciamente penetrata nell'inconscio collettivo o non so cosa, ma c'è sicuramente qualcosa che avviene, perché la forma di zazen sia assimilata più facilmente. Nella domanda precedente si è parlato dell'aiuto, dei suoi limiti, ed ho risposto che non bisogna voler aiutare troppo, perché se vogliamo aiutare con la nostra volontà, il nostro ego, allora l'aiuto è limitato. Ciò che può aiutare veramente è zazen stesso. Non sono io che aiuto, ma lo zazen che si pratica attraverso me. Con il termine me intendo ciascuno di noi. Ritengo occorra aver fiducia nel fatto che quando pratichiamo zazen, anche se siamo soli o poco numerosi, questa pratica ha una influenza invisibile ma reale, come un'onda che si propaga.

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- Kin hin risale alla stessa epoca della postura di zazen?

- Francamente, non lo so. Forse Patrick Malle, che ha studiato quest'argomento ne sa qualcosa? Trovo che sia un buon argomento di studio, ci informeremo al proposito. In ogni caso kin hin era praticato in Cina, è chiaro. Immagino che i monaci in India dopo aver praticato per lunghe ore la meditazione nel pomeriggio, ad un certo punto dovessero alzarsi e poi camminare. E' una domanda di tipo storico, che può essere studiata. Perché sei interessato a quest'argomento?

- Perché kin hin è formidabile, dopo zazen fa circolare l'energia ovunque.

- Tutto ciò che possiamo dire è che lo stesso Buddha era un gran marciatore. Camminava sempre. O era seduto o camminava. Nel corso della sesshin di primavera ho parlato durante il kusen del sutra del Paranirvana, il Buddha aveva a quel tempo ottant'anni ed era malato, ma ha fatto un viaggio di 450 chilometri a piedi nel corso del quale insegnava. Camminava sempre per andare incontro agli esseri. Gli altri monaci facevano come lui. Del resto il termine Do, la Via, in cinese significa camminare, andare.

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- Ho sentito dire che c'era stato un incontro con dei preti, degli sciamani...Trovate similitudini con altre religioni?

- Sì, certo. Siamo tutti radicati in questa natura e quando abbiamo una pratica meditativa, quando volgiamo il nostro sguardo verso l'interno, approfondendo il nostro modo di essere in relazione col mondo, incontriamo necessariamente le stesse verità. Nel 1983 abbiamo invitato degli indiani d'America coi quali il Maestro Deshimaru aveva simpatizzato durante il suo ultimo viaggio negli Stati Uniti. Nel frattempo è morto, ma sono venuti lo stesso. Abbiamo avuto ottimi contatti con loro, ci sentivamo molto vicini.

Venerdì 18 agosto 2000, kusen delle 20:30

Nello Shôbôgenzô Bukkyô Dogen continua dicendo: " I Buddha e i Patriarchi hanno trasmesso personalmente lo Shôbôgenzô, cioè l'occhio del tesoro dell'autentico Dharma, che fu esposto dal Buddha Shakyamuni in quel particolare momento di incontro con Mahakashyapa sul Picco dell'Avvol-toio. Chi pratica zazen con una concentrazione simile, dimenticando completamente se stesso nella pratica, realizza questo stesso incontro, l'incontro col più alto spirito del Buddha ".

" Ma allora - chiede Dogen - com'è possibile che i Patriarchi non abbiano trasmesso personalmente l'insegnamento del Buddha? Com'è possibile che il Buddha si sia preoccupato di illustrare il suo insegnamento, se questo stesso insegnamento non merita di essere praticato dai monaci? Come possiamo pensare che abbia perso il suo tempo per quarantacinque anni parlando di cose senza valore che non meritano la nostra attenzione, quando erano state insegnate per aiutare gli esseri a risolvere la loro sofferenza? E come hanno potuto i Patriarchi cercare di ridurre a nulla quest'insegnamento, se questo spirito supremo, il più elevato del Buddha, non è differente da tutti i sutra, dai dodici tipi di scritture, nei tre veicoli, tanto quelli del Mahayana che dell'Hinayana? "

Durante la sesshin precedente Raphaël Triet insisteva sulla stupidità insita nel voler opporre lo zen immediato e lo zen graduale, il Maestro Jinshu e il Maestro Eno, il piccolo e il grande veicolo: in effetti questo tipo di discriminazioni non è degno degli autentici successori del Buddha. Significa piuttosto che in certi momenti vogliamo evitare gli insegnamenti che ci disturbano. L'insegnamento originale è vasto, infinito, tocca tutti gli aspetti della vita, tutti gli ambiti dell'illusione umana. Spesso tendiamo a concentrarci su ciò che ci seduce, lasciando da parte quanto ci disturba. E' lo stesso nei confronti del Maestro Deshimaru, è difficile accettare la totalità di un insegnamento. La ragione profonda di quest'atteggiamento è che siamo prigionieri dello spirito che sceglie, che ama questo, che non ama quello. Questo spirito di selezione e di scelta è opposto all'autentico spirito della Via, ed è molto lontano dal vero spirito del Buddha.

Dogen aggiunge: " Dobbiamo comprendere che lo spirito del Buddha significa la sua saggezza, la sua vacuità, ogni cosa e i tre mondi, comprese le montagne, gli oceani, le vaste terre e i cieli, con tutti i loro abitanti. Ogni cosa rappresenta l'insegnamento del Buddha. Ogni cosa rappresenta le scritture che ci mostrano la verità ". Tutto ciò può essere realizzato solo se ritorniamo all'origine di tutti gli insegnamenti, in altre parole all'autentica pratica di zazen. Tutti i fenomeni che incontriamo, compreso il male alle ginocchia, qui ed ora nel dojo, possono diventare l'occasione di risvegliarci.

Sabato 19 agosto 2000, kusen delle 6:30

Ieri, durante il mondo, una persona ha detto: " In alcuni culti appartenenti ai popoli primitivi, in alcune pratiche sciamaniche degli indiani, in particolare degli Inuit, esiste un forte senso della natura. E' la stessa cosa nello zen? E, in questo caso, perché aver male alle gambe e continuare a fare delle sesshin? ". Se si trattasse semplicemente di avere un contatto con la natura, si potrebbero semplicemente fare delle escursioni, passeggiare. Tuttavia questa domanda non è per nulla stupida, anzi, è una domanda fondamentale. E' stata la domanda principale che si è posto il Maestro Dogen quand'era giovane. Se tutti gli esseri hanno la natura del Buddha, perché praticare? Nello Shôbôgenzô Bukkyô il Maestro Dogen diceva: " Dobbiamo comprendere che lo spirito del Buddha significa la sua saggezza, la vacuità, ma anche ogni cosa, vale a dire i tre mondi, le montagne, gli oceani, i fiumi. Tutti gli esseri, la natura, sono anch'essi lo spirito del Buddha, tutto può diventare Bukkyô, l'insegnamento del Buddha ". Non esiste lo spirito al di là degli insegnamenti, perché ciò che chiamiamo al di là è ciò che è presente ovunque. E' proprio perché è ovunque presente che si realizza qui ed ora nella pratica di zazen. Senza questa pratica la sua presenza rischia di essere virtuale, soprattutto si rischia di non percepire veramente la natura della natura, diventando superstiziosi e vedendo divinità negli alberi, al punto da sviluppare culti per proteggersi da queste divinità naturali, per ottenere la loro protezione. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con l'insegnamento del Buddha. E' altresì importante vedere che l'insegnamento non è limitato, che il buddismo, lo zen non ha il monopolio della verità. Al tempo stesso l'insegnamento del Buddha non è qualsiasi cosa. Dogen dice un po' più avanti: " Se vogliamo decidere se il nostro insegnamento è giusto o falso, dobbiamo rimetterci alla decisione dei Buddha e dei Patriarchi ". E aggiunge: " Essere e non-essere, forma e vacuità, tutto ciò è realizzato e trasmesso correttamente solo dai Buddha e dai Patriarchi, antichi e moderni ". Per realizzare noi stessi l'essenza di quest'insegnamento del Buddha ci concentriamo sulla pratica di zazen, non solo tendendo la nuca e rientrando il mento, ma anche osservando noi stessi profondamente, capendo che il corpo col quale pratichiamo è anch'esso un oggetto naturale, che appartiene alla natura alla stregua degli alberi, degli animali, delle montagne, e che non ci appartiene. Esso cambia di istante in istante, costituito dai quattro elementi, e non è costituito da una sostanza fissa, da qualcosa che si possa afferrare dicendo: " Questo sono io, mi appartiene ". Avviene la stessa cosa per le nostre percezioni, le sensazioni, i desideri, la volontà e la coscienza. Vedere tutto ciò nella concentrazione della nostra postura di zazen è il cuore dell'esperienza del Buddha. Possiamo osservare che la nostra autentica natura non ha natura ed è per questo motivo che possiamo comunicare con le montagne, i fiumi, poiché nulla fondamentalmente ci separa da essi. Nell'Hinayana si concepisce la saggezza del Buddha partendo dal presupposto che nulla di ciò che ci costituisce possiede sostanza propria. Nel Mahayana si insiste sul fatto che se nulla ha sostanza propria e se nulla esiste separato dagli altri, anche la vacuità esiste solo in rapporto alle forme, ai fenomeni, allora si è sempre di più spinti ad essere solidali con tutti gli esseri. Vacuità significa: solamente relazioni. Armonizzarsi con questa visione è la pratica dei bodhisattva.

Sabato 19 agosto 2000, kusen delle 15:30

Dopo la fine di questo zazen faremo una cerimonia per seppellire le ceneri di Roland Buhagar, Myo Gyo, che aveva ricevuto l'ordinazione a bodhisattva alla fine del campo estivo dell'anno passato. La sua famiglia e lui stesso desiderano che le sue ceneri riposino qui, nel luogo in cui era cominciata per lui una nuova vita, una vita da bodhisattva. Spero che lo accompagneremo numerosi per quello che non è un ultimo viaggio.

La vita del bodhisattva inizia il giorno in cui comprendiamo che tutto quanto ha una nascita deve un giorno morire, che nulla di quanto possediamo ci appartiene veramente e che proprio a causa di questo fatto avvertiamo la sofferenza se siamo attaccati al nostro ego. Per porre rimedio a questa sofferenza il Buddha Shakyamuni ha scoperto la Via che conduce al di là della nascita e della morte, la Via che permette di capire che al momento della nostra nascita non nasce un ego, ma solo la riunione di elementi del cosmo. Questi elementi sono legati attraverso il karma, l'attaccamento, le illusioni. Se però pratichiamo zazen con la determinazione di chi, come raccomandava Sensei, il Maestro Deshimaru, sta per entrare nella propria bara, allora questo zazen ha il potere di risvegliarci dalle nostre illusioni. Possiamo così smettere di identificarci col nostro piccolo ego e realizzare la vita infinita e illimitata, la vita che oltrepassa la separazione tra sé e gli altri. Durante questa vita non c'è più nascita o morte, ma solo l'energia dei voti del bodhisattva che continuano. La forza del karma, dell'attaccamento è sostituita dall'energia dei voti, al punto che può apparire un'altra vita. Nel mondo ordinario si va dalla vita alla morte, nel mondo dello zen, si va anche dalla morte verso la vita. Dopo la campana che segna la fine di zazen coloro che desiderano partecipare alla cerimonia rimarranno nel dojo. La cerimonia consiste in una processione sino alla sinistra della tomba del Maestro Deshimaru: andremo a rendere omaggio in file di quattro, poi ci sarà il rituale della sepoltura. Coloro che non desiderano partecipare alla cerimonia sono pregati di non rimanere nelle vicinanze solo per guardare.

Lunedì 21 agosto 2000, kusen delle 6:30

Rensaku!

Non si tratta di una punizione, ma della mano del Buddha che colpisce il corpo e lo spirito per aiutarci a correggere i nostri errori, a cambiare profondamente il nostro karma. Durante zazen concentratevi totalmente sulla vostra postura, inclinate bene il bacino in avanti, prendete fortemente appoggio con le ginocchia al suolo, estendete la colonna vertebrale, la nuca, spingete il cielo con la sommità del capo e, invece di seguire i vostri pensieri, concentratevi completamente sulla respirazione, diventando un corpo e uno spirito che espira durante l'espirazione, che inspira durante l'inspirazione, un corpo-spirito in unità con zazen, senza ego, senza dire: "sono io che..." anche se è ognuno di noi, col proprio corpo, le proprie caratteristiche, il proprio karma, a volte le proprie difficoltà che pratica zazen. Quando pratichiamo zazen abbandoniamo le nostre caratteristiche personali, ma questo non significa che esse sono scomparse, piuttosto che non ci dirigono più e che non ci attacchiamo ad esse. In questo modo zazen diventa lo zazen di Buddha, non uno zazen personale. Zazen è la pratica che consente alla natura umana, troppo umana, in altre parole troppo limitata, di lasciare posto alla natura del Buddha. Certo, entrambe non sono separate. Ma come rendere viva questa non-separazione? Questo è il senso della sesshin.

Ogni cosa può diventare occasione di risveglio, occasione per riconoscere i propri errori e per abbandonarli. Dall'inizio di questa sessione commento lo Shôbôgenzô Bukkyô del Maestro Dogen nel quale egli insiste sull'identità profonda dello spirito del Buddha con l'insegnamento. Certo, non si tratta di un insegnamento che ci si accontenta di studiare, né di uno spirito sul quale si specula, ma dell'insegna-mento che ci sforziamo di praticare profondamente tornando alle sue origini nella pratica di zazen, lo zazen praticato con lo spirito del Buddha, lo stesso spirito che si è trasmesso intimamente da Est a ovest da più di 85 generazioni. Nello Shôbôgenzô Bukkyô Dogen cita un mondo nel quale un monaco aveva chiesto al Maestro Aryo: " Esiste qualche differenza tra lo spirito dei Patriarchi e quello degli insegnamenti? " Aryo aveva risposto: " Quando fa freddo, il gallo sale sull'albero e l'anatra entra nell'acqua ". Ciascuno agisce in modo differente secondo le proprie caratteristiche, trasmette il Dharma con esse. Se vediamo solo le caratteristiche, allora parliamo di Scuola del Nord e Scuola del Sud, di metodo graduale e di metodo immediato. Se iniziamo a speculare sulle differenze, lo zen diventa complicato. Se invece torniamo costantemente all'origine, nella nostra pratica, allora non ci blocchiamo sulle differenze, non ne siamo disturbati. Lo spirito che accetta le differenze, che non ne è disturbato, è lo spirito fondamentale del Buddha. Non è necessario desiderare che le anatre si arrampichino sugli alberi o che i galli si immergano nell'acqua.

Lunedì 21 agosto 2000, kusen delle 10:30

Non dimenticate di oscillare energicamente sette o otto volte da sinistra a destra e viceversa prima di assumere la postura di zazen. E' importante, nel dojo, non smettere di ripetere costantemente gli stessi gesti. E' sempre la stessa cosa, ma al tempo stesso si tratta di una cosa del tutto nuova. Non dobbiamo permettere che la nostra pratica cada nell'abitudine, ritrovando uno spirito fresco a ogni istante. Alcuni pensano " ho già fatto tutto ciò, non è il caso di ripeterlo " oppure, rimanendo attaccati al passato: " ho già praticato, non ho più bisogno di praticare ancora ". La pratica di gyoji incarna proprio questo ancora, il continuare, continuare ancora a praticare ciò che è giusto e lasciare cadere i nostri errori, non intrattenerli. Già da alcuni anni è ripetuto che i camion non devono disturbare zazen durante le sesshin, ma tuttavia continuano a farlo. Già da alcuni anni si ricorda che durante la festa è possibile bere, ma solo un poco, senza perdere la testa a causa dell'alcool, fino a non sapere più cosa si fa, e tuttavia ci sono persone che si ubriacano ancora. Questo significa che l'insegnamento è ancora necessario, che occorre ancora dare il rensaku, chiedendo a coloro che hanno commesso gravi errori di andarsene. E' una buona occasione per ricordare l'insegnamen-to del Maestro Deshimaru, per non dimenticarlo.

Un giorno un monaco chiese al Maestro Gensha: " Si afferma che i dodici tipi di scritture dei tre veicoli non siano necessari. Qual è allora il senso originario del Dharma, dell'insegnamento? " Gensha rispose: " Tutti gli insegnamenti sono non-necessari, l'essenza dell'insegnamento è proprio realizzare ciò ". La domanda del monaco traeva origine dall'opinione per la quale esistono ogni sorta di insegnamenti e, al di là di essi, esiste il senso originario del Dharma. Dogen dice: " E' perché non aveva compreso che gli insegnamenti sono il senso originario del Dharma ". Sarebbe in realtà del tutto stupido immaginare che occorre studiare il senso originario degli insegnamenti perché sono inutili. " In effetti - dice Dogen - esistono degli insegnamenti nei quali il Dharma si esprime esso stesso ", cioè è realizzato, attualizzato e, a quel punto, non è necessario. Dobbiamo realizzare tutti quel momento nel quale l'insegnamento non è più necessario, non perché è inutile, ma perché è attualizzato, realizzato. Un giorno il Buddha aveva insegnato ai suoi discepoli la legge della causa ed effetto. I suoi discepoli gli avevano detto di aver ben compreso. Allora il Buddha aveva aggiunto: " Se vi attaccate a questo insegnamento, nonostante sia così puro, così chiaro, non avete capito che esso è simile a una zattera fatta per attraversare, ma non per attaccarsi ad essa ". Dogen usa la metafora del fiume: " Se vi trovate su una riva pericolosa e intravedete, sull'altra riva, che questi pericoli non esistono più, è naturale allora voler costruire una zattera per attraversare. Se, una volta giunti sull'altra riva, siete in pace e sicuri, ritenete che sarebbe saggio continuare a trasportare la zattera sulla vostra testa? " E concludeva: " Ho insegnato una dottrina simile a una zattera, essa è fatta per attraversare, ma non per attaccarsi ad essa. Se riuscite a comprendere che l'insegnamento è simile a una zattera, allora dovete anche abbandonare le cose buone, anche il Dharma, e ancor più le cattive ". Questa metafora è molto celebre, anche se a volte male interpretata. Alcuni se ne sono serviti per dirsi: " Ora ho ben studiato l'insegnamento, ho compreso il Buddismo, ho praticato zazen a lungo, ho ottenuto il satori, quindi non ho più bisogno di seguire l'insegnamen-to e di praticare ". Dobbiamo capire che esiste un momento in cui studiamo un insegnamento perché è necessario, pratichiamo la pratica perché è necessaria, perché ne abbiamo bisogno. Questo tempo non deve essere sprecato, questa necessità, questo bisogno non deve essere sciupato. E' il momento di Kato, dove l'attaccamento alla pratica, al Maestro, al Dharma sono preziosi, ci aiutano a procedere sulla Via. E' il tempo in cui pratichiamo zazen perché abbiamo l'impressione che ci procuri benessere, si è sensibili ai suoi meriti. Ma il senso profondo dell'insegnamento del Buddha, della Via, è di continuare la pratica al di là della sua utilità, di praticare lo zazen che non serve a nulla, di seguire l'insegnamento inconsciamente, naturalmente, non per ottenere dei meriti, ma semplicemente perché si è capito profondamente che è la maniera giusta di vivere. A quel punto, poiché non è necessario, possiamo continuare a praticare liberamente, al di là della necessità. E' il momento in cui la pratica è essa stessa realizzazione. Non dormite, don't sleep, nicht schlafen!

Lunedì 21 agosto 2000, kusen delle 16:30

Non è possibile che ci sia un rumore simile durante zazen. Andate a vedere cosa succede. Molte persone sono ammalate, raffreddate. Per quanto vi è possibile, concentratevi e non tossite, non starnutite. Proteggete il dojo facendo uno sforzo per non tossire. E' un modo per praticare la concentrazione e dimenticare se stessi. L'atmosfera nel dojo è più importante della nostra voglia di tossire. Fino ad ora, nello Shôbôgenzô Bukkyô si è trattato della relazione tra l'insegnamento e lo spirito del Buddha. Dogen parla del contenuto dell'insegnamento, non a proposito dell'insegnamento, ma di ciò che è insegnato, praticato. Cos'è l'insegnamento del Buddha? Vengono distinti, secondo la tradizione, tre veicoli: quello degli Uditori, degli Sravaka, quello dei Pratyeka Buddha e infine quello dei Bodhisattva. In genere ci riconosciamo nel veicolo dei Bodhisattva, che viene detto grande veicolo, Mahayana, spesso con una certa condiscendenza nei confronti degli altri aspetti dell'insegnamento. E' questo l'errore che Dogen corregge nello Shôbôgenzô Bukkyô. A proposito del veicolo degli Sravaka, gli Uditori, che viene detto piccolo veicolo, egli dice: " Gli Sravaka realizzano il risveglio attraverso le quattro nobili verità ", la verità della sofferenza, la verità delle cause della sofferenza, la verità della possibile cessazione della sofferenza, infine la verità della Via, del cammino che conduce a questa cessazione. Dogen dice: " Ascoltandole e praticandole, essi si liberano dei quattro tipi di sofferenza: la nascita, la vecchiaia, la malattia, la morte e diventano dei risvegliati ". Alcuni commentatori dicono che le due prime verità fanno parte del mondo della realtà quotidiana, mentre le ultime due appartengono al mondo dell'ideale, cioè all'ambito della Via. Nella pratica della Via del Buddha le quattro nobili verità rappresentano i Buddha stessi: il mondo del risveglio, la manifestazione della verità, la natura del Buddha. E aggiunge: " Per questa ragione non dovremmo discutere dicendo che sono senza natura ". Probabilmente esistevano a quel tempo persone che rifiutavano le quattro nobili verità in virtù di certi argomenti. Ma per Dogen le quattro nobili verità sono la natura del Buddha stesso, perché ognuna di esse è totalmente non-necessaria, nel senso che è l'attualiz-zazione del risveglio stesso. Ad esempio, possiamo osservare profondamente la sofferenza, vederne tutti gli aspetti in noi e negli altri, risvegliandoci completamente alla realtà stessa. Questo risveglio è quello della prima nobile verità, è bodaïshin, lo spirito del risveglio, non creare illusioni a proposito di sé. Molti ritengono che il Buddha esagerasse affermando che la nascita è sofferenza. In genere si considera la nascita un avvenimento felice e si festeggiano i compleanni. Nascita significa essere separati, e dover gestire per tutta la vita questa separazione, questa solitudine fondamentale, la solitudine di essere divenuto un individuo. Tutte le religioni, tutti i cammini spirituali cercano di offrire un rimedio a questa sofferenza primigenia. Se soffriamo per questo motivo è perché aspiriamo a ritrovare l'unità. E' la natura del Buddha che ci spinge a ritrovare il nostro viso anteriore alla nascita. E' questo che incontriamo nella pratica ed è con questo viso che abbiamo appuntamento. Per questo motivo voltiamo lo sguardo verso l'interno, lasciando che zazen illumini la nostra autentica natura. Quando siamo completamente concentrati sulla postura del corpo, sulla respirazione, la pratica di zazen fa cadere l'attività mentale che crea divisioni. Si manifesta allora lo spirito non diviso, si attualizza il mondo senza separazioni. Possiamo vedere attraverso questo esempio che una sola parte della prima nobile verità contiene la totalità del risveglio del Buddha. Non è solo un punto di partenza, il punto di partenza è anche l'arrivo. E' quando siamo già arrivati che partiamo. Vengono poi la malattia, la sofferenza, la morte, aspetti della sofferenza che siamo tutti pronti a riconoscere. Non occorrono spiegazioni per comprendere che la malattia, la vecchiaia e la morte sono cose dolorose. La vera domanda di fondo è: perché è così doloroso? Non è forse perché ci identifichiamo con questo corpo che definiamo il nostro corpo che temiamo tutto quanto può danneggiarlo? Praticare zazen significa diventare intimi col corpo che non ci appartiene, cioè l'autentico corpo del Buddha. Questo corpo non è né giovane né vecchio, né malato né in buona salute, non nasce né muore. Tuttavia, gli capita di avere male alle ginocchia...

Lunedì 21 agosto 2000, kusen delle 20:30

Un giorno il Maestro Tosan disse al Maestro Ungan: " Ho delle cattive abitudini che non sono ancora state abbandonate ". Ungan gli chiese: " Che cosa avete fatto? " Tosan rispose: " Non mi sono preoccupato delle quattro nobili verità " Ungan gli chiese: " Siete felice tuttavia? " " Sarebbe falso affermare che non sono gioioso. E' come se avessi colto una perla brillante in un mucchio di letame ". Qui ed ora, nel dojo, non è il caso di preoccuparsi delle quattro nobili verità. Non è il caso di preoccuparsi dell'insegnamento del Buddha. Non è necessario. Tutti possono percepirlo, perché è completamente realizzato, inconsciamente e naturalmente.

Martedì 22 agosto 2000, kusen delle 6:30

Lo shusso deve ricordare ai kyosaku di non passeggiare per mezz'ora nella Gendronnière. Devono fare rapidamente il giro delle camere e tornare al dojo, senza dimenticare di spegnere le luci. Per favore, alla fine di kin hin continuate ad allinearvi sulla persona alla vostra destra nella parte destra del dojo, sulla persona alla vostra sinistra nella parte sinistra. Nello Shôbôgenzô Bukkyô Dogen diceva che le quattro nobili verità indicano i Buddha stessi, l'ambito del risveglio, la pura manifestazione della verità, la natura del Buddha e aggiungeva: " Non è il caso di discutere, di speculare sulle quattro nobili verità, poiché esse sono non-necessarie ". Apparente paradosso, che emergeva dal mondo tra Tosan ed Ungan, che molti, ieri, non hanno capito o sentito. Tosan aveva detto: " Ho delle cattive abitudini che non sono ancora state abbandonate ". " Che cosa avete fatto? " " Non mi sono preoccupato delle quattro nobili verità ". " Siete felice tuttavia? " " Sarebbe falso affermare che non sono gioioso. E' come se avessi colto una perla brillante in un mucchio di letame ". Tosan non si preoccupava delle quattro nobili verità, ma questo non significa che non le praticasse. Praticava con gioia, vale a dire senza essere preoccupato, senza utilizzare l'insegnamento per ottenere il satori. Esiste un mondo simile tra Eno e il suo discepolo Seigen. Seigen chiede: " Cosa occorre fare per evitare una pratica graduale? " Ed Eno gli chiede: " Che cosa avete fatto? " " Non mi sono preoccupato a proposito delle quattro nobili verità ". " Allora in quale tappa siete caduto? " E Seigen: " Quale tappa può esistere se non esiste preoccupazione a proposito delle quattro nobili verità? " Né Tosan né Seigen criticano le quattro nobili verità, non sarebbe possibile in quanto rappresentano l'insegnamento del Buddha, la messa in moto della ruota del Dharma. Non se ne preoccupano, perché finché c'è preoccupazione non esiste liberazione, ma la continuazione di uno spirito avido che cerca di ottenere il nirvana attraverso l'insegnamento, la pratica. Con questo stato d'animo non esiste autentica liberazione, ma piuttosto una speranza, una tensione verso una liberazione futura. Qui ed ora esiste invece solo uno spirito dualista che si porta dietro spesso un senso di colpa, di intolleranza nei confronti di se stesso e degli altri e non una vera gioia nella pratica. Osserviamo quest'aspetto in tutte le vie spirituali. La risposta a questa sofferenza profonda è quella di Kannon nell'HannyaShingyo, comprendere che in ku, nella vacuità, nella realtà così com'è non c'è bisogno di nulla. Nello spirito vasto di zazen nulla è necessario, non occorre attaccarsi ad alcunché. Certo, non seguiamo le nostre illusioni, ma non ci attacchiamo nemmeno al Dharma, alla verità. La risposta ultima è mushotoku, non è una novità e la nostra esistenza non sarà certo sufficiente per realizzare ciò profondamente. Solo l'insegnamento di mushotoku esprime l'autentica intenzione del Buddha Shakyamuni di liberare tutti gli esseri umani dalla radice delle loro sofferenze. Troviamo questo insegnamento non solo nell'HannyaShingyo, ma anche nei sutra del Buddismo originario. Ad esempio, in un sutra che si chiama La causaoriginaria, Buddha diceva in sostanza che la causa originaria in ogni cosa consiste nel considerare una cosa, o tutte le cose, ad esempio il nirvana, e di costruirne una nozione, attaccandosi ad essa. Coloro che sono già sulla Via si sforzano di non pensare al nirvana, di non attaccarsi ad esso. Ma l'Arhat, vale a dire l'essere puramente risvegliato, non pensa nemmeno al nirvana, né alle quattro nobili verità, ma le attualizza costantemente.

Martedì 22 agosto 2000, kusen delle 10:30

Nella continuazione dello Shôbôgenzô Bukkyô il Maestro Dogen dice: "I Pratyeka Buddha, il veicolo dei Pratyeka Buddha è quello di coloro che realizzano il risveglio osservando il cerchio delle dodici cause interdipendenti che condizionano la ruota della vita, che fa girare la ruota del samsara. In realtà è il risveglio del Buddha Shakyamuni. La notte in cui realizzò il risveglio Buddha comprese le quattro nobili verità riguardo alla sofferenza, le sue cause, la sua cessazione e la via che permette di porre fine alla sofferenza. Ma subito dopo ebbe la visione della catena delle dodici cause interdipendenti". La comprensione della catena delle dodici cause interdipendenti non è riservata a coloro che pervengono al risveglio solitario, ai filosofi, agli intellettuali: Essa implica la cognizione della vita così come l'ha capita Buddha, la comprensione profonda della seconda nobile verità a proposito delle cause della sofferenza. Riguardo a queste cause, di solito si ricordano il desiderio e l'ignoranza, ma in realtà l'avidità e l'ignoranza non sono che due aspetti dei nostri condizionamenti. La notte in cui realizzò il risveglio il Buddha si era chiesto: " Attraverso quale causa la vecchiaia, la malattia e la morte si producono? " Comprese che la morte era condizionata dalla vita. Tutto ciò che ha una nascita ha necessariamente una morte. Di conseguenza, per realizzare la non morte, occorre realizzare la non nascita. La nascita stessa è condizionata dal divenire, un'e-nergia che, essa stessa, è condizionata dall'attacca-mento, da tutti gli attaccamenti. Gli attaccamenti stessi sono condizionati dalle sensazioni. Le sensazioni sono condizionate dal contatto degli organi di senso con i loro oggetti. Gli organi di senso stessi sono condizionati dal fatto che esiste un corpo e uno spirito. Il nostro corpo e il nostro spirito sono condizionati dalle nostre costruzioni mentali, da tutto ciò che riguarda il voler possedere, e queste stesse costruzioni mentali sono condizionate dall'ignoranza, dall'impossibilità di comprendere precisamente il funzionamento della ruota della vita. A volte si dice che l'ignoranza è il punto di partenza, ma la stessa ignoranza è condizionata, in particolare dalle nostre costruzioni mentali che ci impediscono di veder chiaro. Cosicché non c'è origine, né inizio in questo cerchio. Attraverso questa visione è possibile comprendere la trasmigrazione, il nostro essere trascinati dal karma che si situa a livello delle costruzioni mentali. Capire tutto ciò equivale ad offrirsi i mezzi per rimediare ad esso. Un modo di rimediare a tutto ciò consiste nel comprendere che se si arriva a spezzare uno degli anelli della catena, tutti la catena si spezza, perché sono interdipendenti. A questo proposito Dogen diceva nel Bukkyô: " Quando si investiga, quando si studia questa ruota della vita, la ruota dei condizionamenti, è possibile realizzare nella pratica che sono in realtà la causa della completa non necessità ".

Alcuni, talvolta, comprendono a torto che la ruota delle dodici cause interdipendenti, dei dodici innen, implichi un determinismo implacabile e che, di conseguenza, non esista alcuna libertà possibile. Taluni diventano fatalisti e pensano: " Sì, è così, è il mio karma e non posso fare nulla ": Dogen dice: " Questa rotazione della ruota delle dodici cause interdipendenti è in realtà la rotazione della ruota della non necessità ". In realtà, nessuna delle maglie ha sostanza fissa, esistono solo in interdipendenza con le altre. Ogni anello e l'insieme della catena sono la totale vacuità, la completa assenza di sostanza fissa di tutti i fenomeni. Se osserviamo la ruota in questo modo, la ruota dei condizionamenti diventa la ruota del Dharma, la ruota della non necessità, la ruota della liberazione. Dogen aggiunge che Mu Myo, l'ignoranza stessa, è lo spirito del Buddha così come l'azione e la coscienza. Mu Myo è l'estinzione, come l'azione e la coscienza. Sembra sconcertante che una cosa possa essere al contempo essa stessa e il suo contrario, ma è la specificità dell'interdipendenza e della vacuità. Se parliamo di ignoranza, se vediamo l'ignoranza, è perché c'è il risveglio. Non avrebbe senso parlare di ignoranza, non vorrebbe dire nulla se simultaneamente non avessimo la coscienza del risveglio. Così l'igno-ranza non esiste senza il risveglio e viceversa. Questo significa che entrambi sono ku. Se percepiamo in questo modo, non ci attacchiamo più né all'uno né all'altro e possiamo praticare liberamente al centro vuoto della ruota dell'interdipendenza, senza essere ossessionati dal voler spezzare la catena, lasciandola girare senza attaccarci alla sua rotazione. Non abbiamo più bisogno di detestare il samsara, né di desiderare avidamente il nirvana, perché questo non farebbe che incatenarci di più alla ruota. Non dobbiamo dimenticare mai che se siamo diventati dei bodhisattva, dei monaci, delle monache, è perché abbiamo fatto il voto di aiutare tutti gli esseri a liberarsi. Questo voto, questo desiderio potente, diventa la nuova causa della nostra trasmigrazione. Non siamo più nel fiume perché vi siamo piombati dentro, ma perché abbiamo fatto il voto di entrarvi e di rientrarvi costantemente, Anche se siamo bagnati esattamente come gli altri, anche se beviamo allo stesso modo degli altri, è molto diverso. L'acqua ha sempre lo stesso gusto, ma l'atteggiamento mentale di colui che si dibatte per non annegare e quello di chi nuota per andare a salvarlo è del tutto diverso. L'uno è sottomesso alla necessità, L'altro pratica la non necessità, mushotoku.

Martedì 22 agosto 2000, mondo delle 16:30

- Vorrei che mi chiarissi una frase del Maestro Dogen: "Per lunghi anni ho guardato la montagna ricoprirsi di neve, ma da quest'inverno ho visto e compreso che è la neve a diventare montagna".

- Penso si possa comprendere con sfumature diverse; io la intenderei nel senso: "Da molti anni, ho visto l'aspetto della neve come ku, ku soku ze shiki, quando la neve ricopre un paesaggio, non esistono differenze, tutto diventa simile, sarebbe piuttosto shiki soku ze ku. Ritengo che le due cose abbiano attinenza l'una con l'altra, cioè che quando la neve ricopre il paesaggio, tutto diventa identico e le differenze scompaiono. Avviene la stessa cosa quando ci concentriamo in zazen e abbandoniamo lo spirito dualista che crea separazioni, non c'è più dualità né separazione, tutto ritorna a ku. Ma è solo un aspetto. L'altro è che a partire da ku, ku soku ze shiki, i fenomeni appaiono, non si rimane fermi su ku. In genere è il secondo aspetto della pratica. Si comprende bene shiki soku ze ku, si comprende bene questo ritorno alla vacuità, mentre è più difficile capire come entrare nei fenomeni, creare i fenomeni della nostra vita a partire dall'esperienza delle vacuità, senza limitarci solo all'aspetto della vacuità. E' uno degli aspetti che sono rimproverati al buddismo Hinayana, desiderare talmente il nirvana da creare un attaccamento alla vacuità. In che modo non rimanere ancorati solo al versante della vacuità, come, a partire da quest'esperienza, incontrare nuovamente la diversità del mondo della dualità, creare, agire nella nostra vita senza separare più i due aspetti, la dimensione della vacuità e la dimensione dei fenomeni? Credo che il poema di Dogen descriva proprio questo percorso, il cammino del bodhisattva. Ci si impegna nella pratica, giungendo dai fenomeni e si aspira a liberarsi dagli attaccamenti e a sperimentare la vacuità.. Ma se rimaniamo in questa vacuità che sperimentiamo nella pratica di zazen, rischiamo di diventare sia nichilisti sia un po' sterili, e soprattutto non raggiungiamo l'autentica saggezza, perché i due aspetti non sono separati. Il mondo dei fenomeni è come il diritto e il rovescio, il palmo e il dorso della mano. Non solo i fenomeni diventano la vacuità, ma la natura profonda dei fenomeni è vacuità e viceversa. La vacuità, ku, non significa nulla se non ci sono i fenomeni, parliamo di vacuità solo in relazione ai fenomeni per dire che non c'è sostanza, è la natura dei fenomeni. Se realizziamo questi due aspetti possiamo equilibrare la nostra vita.

- E per quanto riguarda il divenire?

- Forse vi è anche la dimensione del divenire. Il divenire è nella nostra visione, nella nostra comprensione. Nella realtà il divenire non esiste, esiste solo la realtà dell'istante, la realtà dell'istante seguente è già una realtà diversa. Non c'è una realtà che diventa un'altra, ma a causa dei nostri attaccamenti, della nostra memoria, per noi esiste il divenire. Esiste la vita. La gioventù che diventa vecchiaia, l'estate che diviene autunno quando le foglie appassiscono e cadono. Dal punto di vista del cosmo esiste l'estate, che è una realtà, e poi esiste l'autunno, che è un'altra realtà, un altro tempo, non vi è qualcosa che si trasforma in qualcosa d'altro.

- Il Maestro Dogen afferma nel poema che la neve diventa montagna.

- Puoi ripetere il poema?

- "Per lunghi anni ho guardato la montagna ricoprirsi di neve, ma da quest'inverno ho visto e compreso che è la neve a diventare montagna".

- Sì, credo che possiamo interpretare all'infini-to il pensiero di Dogen, bisognerebbe chiedere a lui. La neve che si accumula, in definitiva diventa una montagna, una montagna di neve. La neve ricopre la montagna, possiamo dire che diventa completamente intima con la montagna, non esiste più separazione tra le due. Il vantaggio dei poemi è che possiedono una pluralità di sensi possibili, è questo che è stimolante, possiamo a un certo momento vederlo così, poi, in un altro momento, può suggerirci cose diverse. Esistono molti sensi possibili. Io l'ho visto dal punto di vista di shiki soku ze ku, ma tu puoi vederlo in altro modo.

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- Durante l'ultima sesshin, nel mondo, Michel ha detto che lo zen è andare al di là della paura di morire, ma a volte io vorrei essere morto, ho molta più paura della vita. La mia domanda è: come agire con questa paura della vita?

- Se Michel ti ha detto che lo zen è superare la paura della morte, per quanto mi riguarda ho voglia di dirti che lo zen è anche superare la paura della vita, superare gli attaccamenti che ci fanno essere attaccati alla vita e aver paura di morire, e anche quegli attaccamenti che creano la paura di vivere. Cosa ti fa paura?

- Non trovare il mio posto nella vita, essere rifiutato dagli altri.

- Non è una ragione per rifiutare la vita.

- Comprendo tutto ciò con la ragione, ma non progredisco.

- E' vero che ognuno cerca un proprio posto nella vita, un posto presso gli altri e si aspetta di essere riconosciuto dagli altri, amato. Penso che tutto ciò si ottenga difficilmente se lo rivendichiamo, se vogliamo ottenerlo, se vogliamo essere riconosciuti, essere amati. Solo tu puoi riconoscerti. Se dipendi dagli altri... Ad esempio, essere monaco, diventare monaco, significa diventare completamente soli, non dipendere più dallo sguardo degli altri, non dipendere da alcuna posizione, non avere più alcuna posizione. Ciò che ti spaventa di più è in realtà la libertà, il fatto di non dipendere da nessuna posizione, né dal riconoscimento degli altri. A quel punto possiamo essere al nostro posto ovunque. Se sei attaccato al fatto di avere un posto particolare, se pretendi un posto, allora questo diventa una causa di conflitto, di attaccamento e la tua vita diventa limitata. Se invece abbandoni tutto ciò, se comprendi che il tuo vero posto è in realtà sullo zafu e che quando sei seduto in zazen sei al centro dell'uni-verso, allora sei a casa tua ovunque, puoi avere una fiducia profonda nella vita. Non hai bisogno di nulla, nemmeno del riconoscimento degli altri. Se smetti di elemosinare il riconoscimento degli altri, gli altri ti riconosceranno naturalmente. D'accordo?

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- Michel, nel suo mondo, ha parlato di un maestro che praticava vicino a uno stagno pieno di rane con uno stupa sulla testa per restare attento e non uccidere le rane. La mia domanda è: a cosa dobbiamo essere attenti quando pratichiamo da soli, come praticare soli rimanendo attenti e mantenendo lo spirito giusto, la postura giusta?

- E' difficile, perché non c'è nessuno che verifichi la tua postura e tu non puoi certificare l'esat-tezza della tua postura. Questo significa che in realtà non si deve praticare da soli, in ogni caso non durevolmente. Se invece si pratica in un dojo, in un Sangha e si è approfondito a lungo la postura, si sono ricevute a lungo le correzioni, allora si possiede l'immagine della postura giusta come se fosse impressa nel nostro corpo, e non c'è più una necessità così forte che qualcuno la controlli, la sentiamo dall'interno. Io riesco ad avvertire se la mia postura non è buona, me ne accorgo. Si tratta di aver praticato abbastanza a lungo con gli altri, di aver ricevuto sufficienti correzioni in modo da avere un'im-magine della postura giusta. L'immagine del nostro corpo, la pratica, le correzioni, l'insegnamento sono nel nostro cervello. Per questo motivo è detto ai principianti: " Non fate zazen da soli". Un monaco anziano come quel Maestro, aveva certo praticato in un monastero venti, trent'anni, sin dalla sua giovane età. Il suo problema era quello di addormentarsi ed è per questo che si metteva la torre sulla testa, altrimenti, una volta seduto, sarebbe diventato molto calmo e si sarebbe addormentato. Questo è un punto sul quale occorre riflettere. Anche in un dojo, qui per esempio, ci sono persone che si siedono e si addormentano nel giro di cinque minuti e sono le stesse persone da anni. Quando si è soli, è possibile ad esempio mettere una tazza di the sulla testa. In questo caso se comincia a prudere il naso, si è risvegliati. Altrimenti rimane ciò che insegnava il Maestro Deshimaru a proposito della pratica dell'osser-vazione e della concentrazione. Insegnava a non cadere in sanran e in kontin. Se è una domanda relativa a te che pratichi alla Gendronnière, perché hai la preoccupazione di praticare sola?

- Andrò a vivere prossimamente in un luogo in cui non ci sono dojo.

- A lungo? Occorre tornare rapidamente in un dojo, non restare soli a lungo, fare una sesshin ogni mese. D'accordo?

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- Sono stata ordinata monaca un anno fa ed ero molto felice di ciò fino a due settimane fa. Ora sono irritata nei confronti del kesa, sono pronta a toglierlo e a praticare col mio rakusu.

- Ritengo invece che l'irritazione sia dentro di te, si avverte, il kesa è lo specchio che fa apparire la tua irritazione. Dovresti fare gasshô davanti al tuo kesa che ti mostra come sei. Il kesa è lì per disturbare il nostro gusto per la facilità. E' vero che quando si indossa un kesa bisogna essere molto concentrati, attenti. Il kesa disturba l'ego, è come zazen, è là per questo. Devi comprendere dentro di te lo spirito che è disturbato dal kesa, piuttosto che volerlo rifiutare. E' il tuo spirito egoista che deve essere respinto, non il kesa.

- La mia domanda ha una ragione molto concreta, legata ai comportamenti che ho potuto vedere qui nel dojo. Una volta sono stata allontanata da un posto in cui ero, durante la cerimonia e temo che coloro che hanno il kesa guardino dall'alto i principianti. Mi chiedo come tutto ciò sia possibile pur portando un kesa.

- La persona che ti ha respinto portava un kesa?

- Sì.

- E' un atteggiamento errato, ed è vero che talvolta nel dojo si assiste ad una mancanza di delicatezza, a gesti bruschi. Spingere qualcuno per avere un posto nel dojo è stupido, è una vergogna. Non bisogna assolutamente comportarsi così. Anche se qualcuno vi prende quello che ritenete sia il vostro posto, fate gasshô e lasciate passare. Cosa cambia? Non abbiamo un posto nel dojo, non bisogna essere attaccati ai posti. E' anche vero che alla fine di zazen si vedono persone alzarsi in fretta e si viene a creare la competizione per essere in prima fila e uscire per primi. E' vergognoso. Se si è discepoli dello zen non si dovrebbe avere questo atteggiamento, si dovrebbe abbandonare la competizione, è l'ABC della pratica. Ma tu che osservi tutto ciò, non devi entrare in questo gioco, non devi irritarti. Devi avere pazienza e poi far notare dolcemente, con gentilezza alle persone che ti urtano il loro errore, in modo che, progressivamente, l'atteggiamento nel nostro Sangha possa cambiare. OK?

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- Nel kusen, prima della sepoltura, durante la preparazione, non sono sicura di aver capito esattamente, ma mi pare che tu abbia detto: "Nel buddismo, quando si va verso la morte, si va verso la vita". Ho capito bene?

- Sì, ho detto questo.

- Allora ho una domanda da porre: "Ho sempre pensato che nel buddismo non venga cercato un rimedio, ma che si voglia abbandonare il ciclo delle trasmigrazioni. Cosa pensavi quando hai affermato che nel buddismo si va dalla morte verso la vita?

- Non pensavo alla trasmigrazione, non pensavo alla rinascita, pensavo invece a Roland, a Roland Buhagar che, negli ultimi mesi della sua vita, avendo saputo di essere malato e di dover morire, ha avuto una profonda trasformazione interiore. Questa prospettiva lo ha completamente illuminato. Pensavo alla frase del Maestro Deshimaru, praticare come se si entrasse nella propria bara. E' ciò che volevo esprimere parlando della morte che diventa la vita. Si tratta di un riassunto, ma è quello che volevo dire. La prospettiva della morte rende la vita più profonda se siamo in grado di accettarlo, distaccandoci dal nostro egoismo. E' quello che è successo a Roland Buhagar e che ha profondamente impressionato coloro che gli erano vicini, le persone del dojo, in particolare di Clarens. Nello zen ci si interessa alla vita, ci si occupa della morte in rapporto alla vita, non a ciò che avviene dopo la morte. Si tratta di apprendere a vivere ogni giorno rimanendo coscienti dell'impermanenza, senza più inseguire scopi egoistici, che ci fanno solo perdere il nostro tempo, vivendo in modo più profondo, maggiormente in armonia con la realtà, affinché, una volta giunto l'istante in cui dobbiamo realmente morire, non si abbiano rimpianti, o perlomeno, se ne abbia il minor numero possibile. E' questo ciò che volevo dire. Detto ciò, è vero che il punto di vista Theravada implica l'obiettivo di non rinascere, è l'obiettivo degli Arhat, del Piccolo Veicolo, ma per quanto riguarda ciò che siamo e che cerchiamo d'essere, dei bodhisattva, non corrisponde al nostro scopo. E se anche lo fosse, sarebbe un obiettivo spostato all'infinito. Ciò che conta è vivere pienamente i nostri voti di bodhisattva, usare questa vita per vivere veramente la nostra solidarietà con gli altri senza separazioni, facendo voto di rinascere per aiutare gli altri. E' il contrario, perché non cerchiamo di sfuggire alla vita, ma sono le nostre motivazioni in questa vita che cambiano. Come ho detto questa mattina, siamo nella vita non a causa del nostro karma, ma a causa dei nostri voti. Possiamo dire che anche i voti sono un karma, ma un buon karma. D'accordo?

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- Qual è il significato della posizione delle mani in zazen e kin hin?

- Desidero risponderti, ma vorrei precisare che nello zen non ci si preoccupa dei significati. Poniamo le mani come facciamo in kin hin o in zazen, perché è la postura che è stata trasmessa dal Maestro Deshimaru, di generazione in generazione. E' il nostro modo di praticare. Se il Maestro Deshimaru mi avesse insegnato a mettere le mani altrimenti, l'avrei fatto. Non sono attaccato in modo particolare a questa forma, ma ciò che conta è concentrarsi totalmente sulla posizione delle mani. A partire dal momento in cui abbiamo ricevuto questa forma come quella da seguire, non è il caso di riflettere sull'o-ceano del Dharma, perché di questo si tratta, le mani rappresentano l'oceano, il cosmo intero, l'uovo cosmico, la totalità del cosmo è tra le nostre mani, è Ho Kai Jo In. Pensare a questo significato non equivale assolutamente a realizzarlo, è complicato pensare ai simboli mentre lo spirito rimane nella dualità. Tuttavia, se ci si concentra esattamente sul contatto dei pollici, senza lasciare che formino né una montagna né una valle, allora, in quel momento, corpo e spirito possono diventare intimamente e completamente unità. Invece di riflettere sui significati, possiamo diventare unità con la postura, abbandonare tutti i processi mentali che creano le separazioni, ed è in quel momento che si realizza l'au-tentico significato, il fatto che non ci sono più separazioni, tra noi che pratichiamo nel dojo, col nostro piccolo corpo, con questa forma particolare e l'inte-ro universo, proprio perché non creiamo più separazioni. In realtà non sono mai esistite, ma le abbiamo determinate col nostro spirito che crea significati. In zazen, abbandonando questo spirito, possiamo ritornare alla realtà, la non separazione. D'accordo?

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- Ho due domande da porre. La prima è una domanda da principiante: nello zen si parla spesso di ego e di karma e non comprendo bene il significato di questi due termini La seconda: sono di origine ebraica e noto come la mia pratica di zazen faccia rivivere dentro di me la mia cultura ebraica.

- Circa la seconda domanda non posso fare commenti, perché non possiedo una cultura ebraica, ma posso dire che tutti gli ebrei profondamente praticanti che hanno conosciuto zazen hanno fatto la tua stessa considerazione. Deve esserci qualche cosa. In particolare c'era una persona che avevamo incontrato al dibattito 'monaco oggi', il responsabile della fratellanza di Abramo. Ha ascoltato qui una conferenza sullo zen, ha visto la pratica e ha esclamato: " Se non fossi tornato all'ebraismo, ascoltando questa conferenza sarei sicuramente diventato un monaco zen ". L'ha detto nel dojo. Per quanto riguarda la tua prima domanda, a proposito di ego e karma, posso dire che generalmente si parla di ego quando si parla di illusione, cioè dell'attaccamento a una determinata idea, all'immagine di noi stessi che costruiamo come di un ego, un individuo separato che crede di essere qualcosa di stabile, di fisso, che esiste solo per se stesso. Abbiamo quest'idea fin dalla nascita, credo a causa del nostro linguaggio, per il fatto che siamo gli unici animali della creazione a parlare, a dire io, me, mio, è mio. Alla fine confondiamo queste costruzioni del linguaggio, queste parole, con la realtà. Buddha aveva osservato tutto ciò venticinque secoli fa. L'essere umano nomina qualcosa, l'ho detto questa mattina, può essere la terra, sé, me, il nirvana, facendo poi di queste nozioni una realtà, credendo che corrispondano alla realtà, attaccandosi ad essa. Ciò diventa l'origine di ogni sorta di sofferenze. Quando si parla di ego si parla di questa illusione, l'origine di ciò che chiamiamo i veleni, i bonno. E siccome in fondo non siamo del tutto sicuri che questo ego esista, cerchiamo costantemente di proteggerlo, di difenderlo, di ingrandirlo, passando il tempo a cercare di rafforzare questa illusione. Se abbiamo l'impressione che qualcosa minacci questa illusione, allora siamo pronti a diventare violenti, a causare molte sofferenze intorno a noi. Penso che la funzione principale di ogni approccio religioso sia di rimettere in questione quest'attaccamento all'ego, all'illusione di essere un individuo che esiste in sé, per sé e separato. Esistono due approcci. Per quello buddista il Buddha, per far abbandonare quest'illusione, aveva due metodi. Uno consiste nell'esaminare ciò che costituisce questo ego, chiedendovi: che cos'è? È il corpo? No, perché questo corpo è impermanente, diventa polvere. Sono le sensazioni? No, perché esse cambiano continuamente. Sono le percezioni? E' la stessa cosa, dipendono dagli oggetti, dall'ambiente. Sono i pensieri? Cambiano sempre. E' la coscienza? Essa dipende dai suoi oggetti, come uno specchio. Attraverso questa analisi, questa osservazione di sé, Buddha è giunto a smontare completamente la costruzione dell'ego. L'HannyaShingyo vede che i cinque skanda sono vacuità. Questo pensiero è fonte di liberazione ed è a partire da lì che può realizzarsi la non paura, poiché non c'è più nulla da afferrare o da perdere, se capiamo ciò profondamente.

L'altro approccio del Buddha è più dinamico e consiste nel vedere che in definitiva questo ego esiste solo all'interno delle relazioni di interdipendenza. Sono le dodici cause interdipendenti di cui ho parlato questa mattina, che rimandano alla vacuità. Nulla esiste in sé: quando questo esiste, esiste anche quello. E poiché noi esistiamo solo nelle relazioni di interdipendenza, non abbiamo esistenza in sé. E' un modo nuovo di avversare l'illusione dell'ego, di vederne la falsità. Questo è l'approccio buddista, quello del Buddha. Nel monoteismo, ad esempio, l'approccio è diverso, ma il risultato è lo stesso. Si tende verso la stessa cosa, ci si dice: non siamo altro che creature, non esistiamo da sole, dipendiamo dal creatore, esistiamo solo in quanto creature. Essendo solo una creatura non posso essere attaccata al mio ego, poiché esisto solo attraverso Dio, in Dio. E' un modo diverso. In entrambi i casi si tende ad abbandonare l'egoismo.

Per quanto riguarda il karma bisognerebbe fare una conferenza. Leggete dei libri. In tutti i libri sul buddismo si parla molto del karma. Ci sono altre domande? Molte? Sì. Allora ci fermiamo. Potrei parlare del karma, ma occorrerebbe troppo tempo. Fate domande che vi riguardano, per ciò che riguarda le definizioni esistono i libri.

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- La mia domanda è in rapporto col distacco dell'ego. Sono turbata dall'idea felice dell'espres-sione di una singolarità, di una individualità, che appare quando cade l'ego, che è positiva perché è l'espressione della propria natura con le qualità che le sono proprie...

- Ascolta, fermati, non capisco cosa vuoi dire, cosa vuoi spiegarmi e non sono sicuro che tu capisca te stessa, è troppo complicato. Cosa vuoi dire? Semplicemente.

- C'è in me un turbamento tra praticare zazen che, penso, conduce alla visione giusta di sé, più vicina a sé, alle proprie qualità...No?

- No. Essere se stessi è un progetto impossibile, poiché il sé non esiste, cambia continuamente. Tutti dicono: " Voglio essere me stesso ". Non possiamo catturare questo me. Molti praticano lo zen, terapie personali, per cosa? " Voglio diventare me stesso ". E' impossibile, non possiamo essere noi stessi e, al tempo stesso, non possiamo non essere noi stessi, siamo sempre noi stessi. Anche se siamo attori nel peggiore senso del termine, in altre parole se bluffiamo, o mentiamo, allora stiamo mentendo, siamo cioè un essere umano che sta mentendo, siamo sempre completamente noi stessi. Ma se vogliamo essere noi stessi, se pensiamo di poter trovare qualcosa che costituisca la nostra essenza chiedendoci " cosa sono veramente? ", ci accorgiamo alla fine che non possiamo possedere nulla. Possiamo avere quest'im-pressione in un dato momento, " ecco, sono così! " ma è impermanente. Quando realizziamo che non possiamo possedere questa essenza di noi stessi, allora lasciamo la presa e abbiamo la possibilità di realizzare veramente la natura della nostra esistenza, che è inafferrabile, distaccandoci dalla nozione di sé, da ogni immagine, da ogni idea preconcetta di sé. A quel punto il problema non si pone più. . Quest'attaccamento a voler essere se stessi è la nevrosi, l'attaccamento all'ego e porta a costruire degli idoli, una forma, un'immagine. Penso che non possiamo sfuggire all'essere noi stessi, nell'illusione e nel satori.

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- Durante zazen ho fatto un'esperienza, a proposito di una mia riflessione sulla danza e lo zen. Ho osservato nella danza l'unità del corpo e dello spirito. Mi chiedo: sono delle suggestioni o è zazen ad essere in movimento?

- Penso sia importante a un tempo che tu abbia fiducia nella tua esperienza, che tu non dubiti di essa e al tempo stesso che tu non ti attacchi ad essa. In altre parole, non credo che si tratti di suggestioni, potrebbero anche esserlo, ma non credo sia il caso, se sei profondamente concentrata sul movimento della danza, su un lavoro, un samu, ognuno può sperimentare quest'unità del corpo e dello spirito. Non è il caso di diventare complicati, di dubitare dicendo: " Mi sto suggestionando? ", devi avere fiducia nella tua esperienza e al tempo stesso non attaccarti ad essa. Il fatto che tu sia venuta qui a parlarne mostra che sei rimasta attaccata alla tua esperienza, è lì che c'è qualcosa di troppo. Non si tratta di suggestione, l'esperienza era sicuramente vera, ma il ripensarci ancora, non so quanto tempo dopo, mostra l'attaccamento. D'accordo?

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- Mi chiedo se per caso non sono le illusioni e i desideri a fare avanzare gli uomini e se praticare zazen non porti a un atteggiamento passivo nei confronti degli avvenimenti.

- Sicuramente le illusioni e i desideri fanno avanzare gli uomini, ma li fanno avanzare come asini che vogliono agguantare la carota, è l'avidità. Certo che fa avanzare, ma si avanza davvero con questo tipo di atteggiamento motivato dall'avidità? Tutto il mondo si agita, corre, avendo l'impressione di avanzare. Non è sicuro che si avanzi veramente, piuttosto si gira in tondo come gli scoiattoli sulla ruota. Zazen conduce alla passività? No. Possiamo avvertire motivazioni più profonde per andare avanti, agire in un modo che abbia un senso più profondo, invece di rincorrere desideri egoistici. Ancora una volta, a partire da zazen, la realizzazione dei nostri voti di bodhisattva crea una forte attività, diventando il senso, lo scopo delle nostre azioni. Ci sono persone, ad esempio, che creano dei dojo, che hanno costruito la Gendronnière, che viaggiano per far conoscere lo zen. Il proprio modo di lavorare cambia per vivere maggiormente nello spirito di compassione e di solidarietà. Si continua ad agire, ma cambia la motivazione della nostra azione, diventa più generosa. La tua domanda mi pare triste per te. Sembra sottintendere che tu non veda altre ragioni alle azioni umane che l'illusione o il desiderio. Se sei di quest'opinione, disgraziatamente molto realista, è triste, ma non c'è solo questo. Possiamo agire diversamente da una visione o da desideri egoisti.

- Rimettersi al cosmo necessita sicuramente del tempo affinché mi risponda, mi dia le risposte sulle scelte che devo fare.

- Non credo che ti risponderà. Sei tu che devi trovare la risposta, non il cosmo. E la devi trovare a partire dall'approfondimento della pratica di zazen, spogliandoti dei piccoli desideri che ti facevano correre qui e là, per cercare di percepire veramente la tua motivazione profonda nella vita. Sei tu che devi rispondere, la risposta deve sorgere dal profondo di te stesso. Non viene dall'esterno. D'accordo?


Mercoledì 22 agosto 2000, kusen delle 6:30

E' l'ultima mattina della sesshin, concentratevi bene, cercate di non tossire. Oggi alcuni di voi diventeranno bodhisattva. Diventare bodhisattva non è solo una cerimonia, è il terzo veicolo dell'insegna-mento del Buddha. Nello Shôbôgenzô Bukkyô Dogen dice: " Il bodhisattva realizza il risveglio supremo attraverso la pratica delle sei paramita ". Ciò che realizza va al di là di categorie quali immediato o graduale. Il Maestro Deshimaru diceva sempre: " Fare zazen, praticare shikantaza significa diventare Buddha. Ma nella vita quotidiana le sei paramita sono necessarie ". Non è sufficiente diventare Buddha per un'ora o due al giorno. Come realizzare il risveglio in tutti i momenti e aspetti della nostra vita è la pratica delle sei paramita, la pratica dei bodhisattva. Queste pratiche sono: il dono, il rispetto dei precetti, la pazienza, lo sforzo, la meditazione (zazen) e la saggezza. Le sei paramita del bodhisattva sono spesso enumerate in quest'ordine, ma questo non significa che il dono, il fuse, venga prima e che la saggezza venga per ultima. In alcuni sutra la saggezza viene per prima e il dono per ultimo. Dogen fa notare che la pazienza, la meditazione possono venire per prime e che, in realtà, le sei pratiche sono del tutto interdipendenti. Per quanto ci riguarda, noi consideriamo generalmente, come Menzan, che zazen viene per primo, che non è una pratica tra le altre, ma l'origine di tutte le pratiche, cosicché le altre paramita non sono altro che l'espressione di zazen nella vita quotidiana. Questo non significa che le altre pratiche siano senza importanza, perché ogni paramita è la pratica del risveglio supremo. Recentemente si è discusso tra i monaci più anziani sul modo di aiutare gli altri a praticare. In caso di impedimenti dovuti alla salute, è possibile organizzare una cerimonia. Insegnare la pratica delle paramita sarebbe certamente più efficace, poiché le paramita non sono pratiche inferiori, né semplici mezzi per ottenere il risveglio supremo. L'insegnamento di Dogen nel Bukkyô mete in evidenza proprio come ogni paramita sia il compimento del risveglio e faccia dunque parte del risveglio immediato. Non si tratta di pratiche inferiori. Questo è anche un dibattito tra noi, antico come lo zen, a proposito del concetto di graduale o immediato. Fin dall'origine il Buddha aveva due insegnamenti: un insegnamento graduale e uno immediato. Ogni suo insegnamento può essere recepito come graduale o immediato. L'insegnamento graduale rappresenta la Via che si basa sull'accumulare dei meriti. Ad esempio, le sei paramita sono considerate come pratiche graduali. Fate dei fuse, specie nei templi, e questo gesto vi aiuterà ad avere dei buoni meriti, una buona rinascita. Rispettate i precetti e diminuite il vostro karma negativo ottenendo buoni meriti e dunque potete rinascere evitando rinascite negative. La stessa cosa avviene se praticate la pazienza, si fate degli sforzi, se vi concentrate a praticare la meditazione, se imparate la saggezza, se studiate.

Ma, senza aspettare la nascita del Mahayana, lo stesso Shakyamuni Buddha considerava che non si trattava dell'essenzialità del suo insegnamento, non era il cuore del grande albero, ma solo i rami e le foglie. Questo non significa che fosse disprezzabile, ma non ne era lo scopo profondo. Ottenere meriti, essere felici, avere una buona rinascita, sono sicuramente ottime cose, migliori certamente del creare un cattivo karma e vivere all'inferno. Il cuore dell'insegnamento del Buddha Shakyamuni era la realizzazione del risveglio supremo, in altre parole la liberazione completa da tutte le cause di sofferenza, da tutte le cause di trasmigrazione. E tra queste cause c'è anche l'avidità nella via spirituale. E' il pericolo della via graduale, voler accumulare i meriti, sviluppando una sorta di avidità spirituale. Immediato o graduale non dipende dai tre veicoli, non dipende dalla divisione tra Mahayana ed Hinayana, qualunque pratica può essere vissuta come pratica graduale o immediata. Se siamo alla ricerca dei meriti, siamo all'interno della pratica graduale e vediamo allontanarsi la liberazione. Se pratichiamo senza aspettarci un merito personale, senza aspettare una ricompensa, senza cercare di ottenere nulla, nemmeno il satori, se pratichiamo con uno spirito mushotoku, ogni pratica diventa pratica del risveglio supremo, immediatamente. Il dono (fuse) che non attende nulla in cambio, senza nemmeno avere l'impressione di donare qualcosa, implica l'abban-dono totale dell'ego ed è la pratica della realizzazione del risveglio. Praticare i precetti, non perché ci si sottomette a una autorità, ma semplicemente perché si pratica l'azione giusta, trasforma la pratica dei precetti nell'espressione della natura del Buddha. Non è più una costrizione, ma la libertà. Osservare i precetti significa abbandonare immediatamente l'ego, abbandonare i suoi bonno, il proprio egoismo, realizzare immediatamente il risveglio. E' la stessa cosa per tutte le altre paramita. In quest'ottica le paramita non sono mezzi per raggiungere l'altra riva. Dogen diceva nel Bukkyô: " Non dobbiamo pensare che si possa raggiungere l'ambito del nirvana attraverso la pratica delle paramita o dell'insegnamento del Buddha ". Noi pratichiamo già in questo ambito, pratichiamo nel nirvana, pratichiamo sull'altra riva. Questa è la pratica immediata, ma occorre moltissimo tempo per realizzarla completamente. Occorrono un'infinità di vite umane per realizzare completamente le paramita. In questo modo l'immediato viene in un primo tempo e poi viene il graduale. Pratichiamo lo zazen che è già satori ed occorrerà ancora molto tempo prima che la nostra vita si armonizzi con zazen.

Mercoledì 22 agosto 2000, kusen delle 10:30

E' l'ultimo zazen della sesshin, concentratevi bene. Concentrandovi completamente sulla pratica di zazen, sul samu, il gyoji alla Gendronnière, ognuno ha potuto, durante questa sessione, sperimentare l'insegnamento del Buddha. Con la pratica quest'in-segnamento è semplice. Al tempo stesso non dobbiamo mai dimenticare che l'insegnamento del Buddha è vasto, e non ridurlo mai a ciò che crediamo di aver compreso. Da 25 secoli, dalla morte del Buddha, in ogni generazione alcuni monaci hanno avuto la tendenza, per certi versi naturale, a dire: " Questa era l'essenza dell'insegnamento ". In questo modo si sono create delle opposizioni, delle separazioni, delle dispute. Finché si dice: " Secondo me, dal punto di vista della mia esperienza ", finché si prende in esame l'insegnamento con questo spirito, si è nella verità. Ma dal momento in cui si afferma: " L'autentico insegnamento è questo, non quello ", allora ci si allontana immediatamente dallo spirito dell'insegnamento del Buddha. Si crea una categoria mentale limitata, lo spirito che crea le guerre, i conflitti. Nello Shôbôgenzô Bukkyô Dogen aggiunge qualcosa di prezioso alla nostra comprensione, affermando che i differenti veicoli che tendiamo ad opporre, i diversi insegnamenti del Buddha, rappresentano tutti lo spirito del Buddha. Non solo l'insegnamento, ma l'intero universo è lo spirito del Buddha, secondo Dogen. E' il suo punto di vista. E conclude dicendo: "Dobbiamo capire che Bukkyô, gli insegnamenti del Buddha sono tanto numerosi quanto i granelli di sabbia del Gange, questo kotsu, questo pugno, questa mano ". Ogni cosa che utilizziamo nella vita quotidiana esprime quanto i sutra l'insegnamento del Buddha. Gli alberi, il lago, il cielo, la terra, il cosmo intero ci insegnano la verità. Essa non può essere limitata o posseduta da nessuno. Se comprendiamo ciò intimamente, se ne siamo convinti, il nostro Sangha potrà contribuire a superare le opposizioni e i conflitti, portando pace in questo mondo.

Traduzione: Maresa Myogen Di Noto